Lettura brano iniziale (p. 15)
Legge Maria Teresa Vernaleone
“A ogni battito d’ali primaverile, a ogni stormir di fronde autunnali, unaltro dei grandi protagonisti di questa storia raggiunge Camillo e Adriano nell’empireo dei sogni.
Prima, Domenico Semeraro, poi Francesco Novara, seguito da Renzo Zorzi, e poi ancora Mario Caglieris, Ottorino Beltrami, Cornelia Lombardo, Luciano Gallino e poi, dal grande castagno di Monte Navale, 2 si è staccata in un freddo dicembre l’ultima foglia, Laura Olivetti, figlia di Adriano, da noi chiamata Lalla, come la chiamavano il suo papa e la sua mamma.
Con Lei si chiude la grande saga olivettiana.
Prima che, fra pochi battiti d’ala, anch’io, semplice portatore d’acqua e quindi libero da condizionamenti e reticenze, non possa più esprimere lo stupore per una storia che mio padre ed io abbiamo vissuto e che ormai appare inverosimile, sempre più lontana e irripetibile, è ora che riprenda la penna e scriva questa Storia, troppo breve, di un sogno.”
Credo che questo convegno sia l’occasione migliore per presentare questo libro, di cui costituisce la naturale conclusione, proprio per quei germi di futuro che contiene.
Innanzi tutto devo però ringraziare Emilio Renzi, non solo per le parole dette e quelle scritte nella prefazione al libro, ma soprattutto per averne capito lo spirito che lo ha animato: quello di contribuire a riportare all’attenzione di tutti questa storia che è innanzitutto di etica del lavoro, dove l’uomo è al centro con le sue necessità materiali, umane e culturali.
Tuttavia, non è un libro di storia sulla Olivetti, perlomeno nel senso tradizionale. Una storia completa sulla Olivetti, che disveli insieme a tutti gli aspetti, industriali, commerciali e finanziari, anche quelli sociali, culturali, del design e dell’architettura, e che spieghi quel progetto di comunità di Adriano e il suo livello di realizzazione, non è ancora stata scritta. La tentazione, quindi, di scriverne una, frutto di una ricerca ampia e approfondita, era forte, ma poi un moto irrefrenabile dell’animo mi ha portato a quest’altro testo, sicuramente meno ambizioso, ma per me più autentico.
Negli anni, ormai in pensione, vedendo gli sforzi e le fatiche delle mie figlie per inserirsi nel mondo del lavoro, e soprattutto riflettendo su quanto mi dicevano: “Papà tu non capisci, tu sei vissuto in Olivetti, dove tutto era diverso”, ho incominciato a realizzare che quella esperienza vissuta dalla nostra famiglia, seppur in ambiti diversi (io, quasi sempre nel settore commerciale, mia moglie, nei servizi per l’infanzia, le mie figlie fruitrici dell’asilo, delle colonie, e più tardi del pullman aziendale per Milano) non aveva nulla di normale. Così, come per migliaia di altre famiglie.
Da questa presa di coscienza, di aver vissuto una realtà unica nel mondoindustriale e sociale italiano, è nato in me lo stupore per tutto ciò che intornoavevo visto come la normalità.
A incominciare dalla bellezza degli edifici che hanno accompagnato la
nostra vita: via Jervis, che qualcuno ha definito “l’Atene degli anni Cinquanta”, con la sua lunghissima parete in vetro che inonda di luce naturale chi lavora e lo mette in comunicazione con la terra canavesana da cui proviene, e ancora l’immaginifico edificio dei Servizi Sociali, sul lato opposto, aperto all’accoglienza dei lavoratori e dei cittadini. Quegli edifici non li avevo mai visti così: non ci sono muri, né cancellate, tutto è aperto. E qui capisci che queste cose non nascono per caso, ma per un preciso pensiero politico e sociale: la fabbrica è la casa della Comunità, in una comunità non ci sono barriere.
Questo è il libro di queste riflessioni e di questo stupore. Una storia scritta con il senso dell’appartenenza a una grande famiglia che condivide gli stessi valori e vuole trametterli alle generazioni future. Il libro è dedicato, infatti, a mio nipote Arturo, che ha compiuto cinque anni a settembre.
Questo scritto porta molte testimonianze, tra cui due importantissime, che gli conferiscono valore e forza documentale.
La prima, quella di Mario Caglieris, l’uomo di fiducia di quattro presidenti, che alla fine della sua vita ha voluto confidarmi la verità su alcuni avvenimenti della crisi del ’64, che spazzano via facili e interessate ricostruzioni.
La seconda, quella di Michele Canepa, responsabile del laboratorio elettronico di New Canaan, non distante da New York, che ricostruisce la nascita dell’elettronica Olivetti negli anni ’50, negli Stati Uniti, che se non censurata è stata ignorata
.
Ma ci sono anche le testimonianze di persone che non hanno svolto funzioni di così grande rilievo, che raccontano le loro esperienze in un’azienda che di normale rispetto al mondo industriale italiano aveva ben poco, come quelle delle Spille d’Oro Luciano Banchelli e Teresa Rolla, che non sono più tra noi. Il periodo coperto dal libro va dalla nascita della Olivetti nel 1908 al 1978 ed è suddiviso in tre parti.
La prima, che possiamo chiamare il periodo della “Formazione”, comincia dalla “fabbrica di mattoni rossi” di Camillo Olivetti, per arrivare ai terribili anni dell’occupazione tedesca e alla narrazione epica di cosa siano stati quegli anni per l’Olivetti, divenuta centro e motore di una comunità fortemente impegnata nella Resistenza.
La seconda, va dal primissimo dopoguerra con il ritorno di Adriano dall’esilio in Svizzera alla sua morte il 27 febbraio 1960. È il periodo “Classico” per il concentrato di arte, cultura e umanesimo sociale e industriale che si sviluppò e diffuse a Ivrea. In questa parte si parla anche di due settori d’Azienda ormai dimenticati: il Centro Formazione Meccanici, da cui sono usciti centinaia di allievi di cui alcuni giunti alla dirigenza e la OMO (Officina Meccanica Olivetti) fondata da Camillo già nel 1926, produttrice di macchine utensili sia per la Olivetti, sia per il mercato, divenuta poi Olivetti Controllo Numerico, un’altra grande occasione perduta.
La terza è il periodo della “Conservazione”, in cui è avvenuta la trasformazione da azienda meccanica a elettronica.
Molti hanno fatto terminare la Olivetti al 1960 con la morte di Adriano, io credo che quei valori e quella Olivetti abbiano dato ancora una grande prova con il passaggio dalla meccanica all’elettronica, avvenuto con modalità che erano il frutto di un monito di Camillo ad Adriano: “Non licenziare”, che si era incarnato nel DNA aziendale. Un’operazione unica nel suo genere nel mondo industriale internazionale, dove il problema è stato risolto delocalizzando gli impianti e attuando licenziamenti. In Olivetti le localizzazioni sono rimaste dove erano e nessuno è stato licenziato, nonostante l’esubero di personale dovuto alle nuove tecnologie.
Con il 1978, quando anche le macchine per scrivere diventano elettroniche, superando gli ultimi ostacoli tecnologici che fino allora lo avevano impedito, con la ET 101 la prima macchina per scrivere elettronica al mondo, l’operazione è conclusa.
La Storia della Olivetti, la “Ditta” dei Fondatori, finisce qui. Abbiamo vissuto un sogno, non lo sapevamo.
Poi il DNA dell’azienda cambia, da industriale e solidale, diventa finanziario. Da un lato, da una conduzione industriale mirata alla produzione e agli investimenti nella ricerca e sviluppo, si passa alla loro progressiva diminuzione, favorendo sempre di più il BUY (l’acquisto) anziché il MAKE (il fabbricare), riducendo così drasticamente il valore aggiunto dei prodotti.
Dall’altro, da una forte integrazione aziendale, con un comune sentire e una forte identità di squadra, si passa all’esaltazione del risultato individuale, con risultati negativi sulla coesione interna e sul risultato stesso a medio e lungo termine.
Così un’Azienda è scomparsa.
dal sito nel Futuro