Adriano Olivetti e la fuga dall’Italia di Filippo Turati
Le nostre cene di solito consistevano in una minestrina di Liebig, molto cara a mia madre, e che la Natalina faceva sempre troppo brodosa; e in una frittata. Gli amici di Gino dunque dividevano con noi queste cene, sempre identiche; poi ascoltavano, intorno alla tavola, le storie e le canzoni di mia madre. Fra questi amici ce n’era uno, che si chiamava Adriano Olivetti; e io ricordo la prima volta che entrò in casa nostra, vestito da soldato, perché faceva, a quel tempo, il servizio militare; anche Gino faceva allora il servizio militare, ed erano, lui e Adriano, nella stessa camerata.
Adriano aveva allora la barba, una barba incolta e ricciuta, di un colore fulvo; aveva lunghi capelli biondo-fulvi, che s’arricciolavano sulla nuca, ed era grasso e pallido.
La divisa militare gli cadeva male sulle spalle, che erano grasse e tonde; e non ho mai visto una persona, in panni grigio-verdi e con pistola alla cintola, più goffa e meno marziale di lui. Aveva un’aria molto malinconica, forse perché non gli piaceva niente fare il soldato; era timido e silenzioso; ma quando parlava, parlava allora a lungo e a voce bassissima, e diceva cose confuse ed oscure, fissando il vuoto coi piccoli occhi celesti, che erano insieme freddi e sognanti.
Adriano, allora, sembrava l’incarnazione di quello che mio padre usava definire «un impiastro»; e tuttavia mio padre non disse mai di lui che era un impiastro, né un salame, né un negro: non pronunciò mai al suo indirizzo nessuna di queste parole. Mi domando perché: e penso che forse mio padre aveva una maggiore penetrazione psicologica di quanto noi sospettassimo, e intravide, nelle spoglie di quel ragazzo impacciato, l’immagine dell’uomo che Adriano doveva diventare più tardi. Ma forse non gli diede dell’impiastro, soltanto perché sapeva che andava in montagna; e perché Gino gli aveva detto che era anti-fascista, e che era figlio di un socialista, amico anche lui di Turati.
Gli Olivetti avevano, a Ivrea, una fabbrica di macchine da scrivere. Noi non avevamo mai conosciuto, fin allora, degli industriali; l’unico industriale di cui si parlava in casa nostra, era un fratello di Lopez chiamato Mauro, che stava in Argentina ed era ricchissimo; e mio padre progettava di mandare Gino a lavorare da quel Mauro nella sua azienda. Gli Olivetti erano i primi industriali che vedevamo da vicino; e a me faceva impressione l’idea che quei cartelloni di réclame che vedevo per strada, e che raffiguravano una macchina da scrivere in corsa sulle rotaie d’un treno, erano strettamente connessi con quell’Adriano in panni grigio-verdi, che usava mangiare con noi, la sera, le nostre insipide minestrine.
Terminato il servizio militare, Adriano continuò a venire da noi la sera; e divenne ancora più malinconico, più timido e più silenzioso, perché si era innamorato di mia sorella Paola, che allora non gli badava. Adriano aveva l’automobile; era, tra le persone che conoscevamo, l’unico ad aver l’automobile; non l’aveva allora nemmeno Terni, che pure era così ricco. Adriano, quando mio padre doveva uscire, subito gli proponeva di accompagnarlo in automobile, e mio padre s’infuriava: non potendo soffrire le automobili, e non potendo soffrire, come sempre diceva, le gentilezze.
Adriano aveva molti fratelli e sorelle, tutti lentigginosi, e rossi di capelli: e mio padre, che era anche lui rosso di capelli e lentigginoso, forse anche per questo li aveva in simpatia. Si sapeva che erano tanto ricchi, ma avevano tuttavia delle abitudini semplici, erano vestiti modestamente, e andavano in montagna con degli ski vecchi, come noi. Avevano però molte automobili, e offrivano ad ogni istante di accompagnarci in un luogo o nell’altro; e quando andavano in automobile per la città, e vedevano un vecchio camminare con passo un po’ stanco, fermavano e lo invitavano a salire; e mia madre non faceva che dire com’eran buoni e gentili.
Finimmo col conoscere poi anche il loro padre, che era piccolo, grasso e con una grande barba bianca: e aveva, nella barba, un viso bello, delicato e nobile, illuminato dagli occhi celesti. Usava, parlando, trastullarsi con la sua barba, e coi bottoni del suo gilè: e aveva una piccola voce in falsetto, acidula e infantile. Mio padre, forse per via di quella barba bianca, lo chiamava sempre «il vecchio Olivetti»; ma avevano, lui e mio padre, all’incirca la stessa età. Avevano in comune il socialismo, e l’amicizia con Turati; e si accordarono reciproco rispetto e stima. Tuttavia, quando s’incontravano, volevano sempre parlare tutt’e due nello stesso momento; e gridavano, uno alto e uno piccolo, uno con voce in falsetto e l’altro con voce di tuono. Nei discorsi del vecchio Olivetti si mescolavano la Bibbia, la psicanalisi e i discorsi dei profeti: cose che nel mondo di mio padre non entravano assolutamente, e intorno alle quali, in fondo, lui non s’era formata nessuna speciale opinione. Mio padre trovava che il vecchio Olivetti aveva molto ingegno, ma una gran confusione nelle idee.
Gli Olivetti abitavano, a Ivrea, in una casa chiamata il Convento, perché era stata in passato un convento di frati; e avevano boschi e vigne, mucche, e una stalla. Avendo quelle mucche facevano, ogni giorno, dolci con la panna: e a noi la voglia della panna era rimasta fin dal tempo che mio padre, in montagna, ci proibiva di fermarci a mangiarla negli chalet. Usava proibircelo, fra l’altro, per paura della febbre maltese. Là dagli Olivetti, che avevano quelle loro mucche, il pericolo della febbre maltese non c’era. Cosi noi da loro ci sfogavamo a mangiar panna. Tuttavia mio padre ci diceva: — Non dovete farvi sempre invitare dagli Olivetti! Non dovete scroccare! — Perciò avevamo tanto l’ossessione di scroccare che una volta Gino e la Paola, invitati a Ivrea a passar la giornata, nonostante le insistenze degli Olivetti rifiutarono di fermarsi a cena e anche di farsi riaccompagnare in automobile, e fuggirono via digiuni, aspettando il treno nella notte. Un’altra volta capitò che io dovessi fare con gli Olivetti un viaggio in automobile, e ci fermammo per il pranzo in una trattoria; e mentre tutti loro ordinavano tagliatelle e bistecche, io ordinai per me solo un uovo a bere, e dissi poi a mia sorella che avevo ordinato solo un uovo «perché non volevo che l’ingegner Olivetti spendesse troppo». Questa cosa venne riferita al vecchio ingegnere, che ne fu molto divertito, e usava riderne spesso: e nel suo riderne c’era tutta l’allegria d’essere molto ricco, di saperlo, e scoprire che c’era ancora qualcuno che non lo sapeva.
Quando Gino ebbe finito il Politecnico, gli si aprivano due possibilità. O andare a lavorare da quel Mauro, che aveva l’azienda in Argentina, e che noi chiamavamo familiarmente «lo zio Mauro» imitando i ragazzi Lopez; mio padre, da mesi, teneva con lo zio Mauro un assiduo carteggio, in cui trattava dell’avvenire di Gino. Oppure andare a lavorare a Ivrea, nella fabbrica dell’ingegner Olivetti. Gino scelse quest’ultima soluzione.
Gino dunque lasciò la nostra casa, e se ne andò ad abitare a Ivrea; e pochi mesi dopo annunciò a mio padre di aver conosciuto là una ragazza e di essersi fidanzato. Mio padre fu colto da una collera spaventosa. Mio padre sempre, ogni volta che uno di noi gli annunciò di essere sul punto di sposarsi, fu colto da una spaventosa collera, chiunque fosse la persona prescelta. Un pretesto lo trovava sempre. O diceva che la persona da noi prescelta era di salute gracile; o diceva che non aveva soldi; o diceva che ne aveva troppi. Ogni volta, mio padre ci proibì di sposarci; senza ottenere nulla, perché tutti ci sposammo ugualmente.
Gino allora venne mandato in Germania, per studiare il tedesco e per dimenticare. Mia madre gli raccomandò di andare a trovare, a Friburgo, la Grassi. La Grassi era un’amica d’infanzia di mia madre, ed era quella che diceva: «Tutta di lana Lidia! » e «Le violette Lidia!» La Grassi aveva conosciuto, a Firenze, un libraio di Friburgo, e l’aveva sposato; e lui le leggeva Heine, e le aveva insegnato ad amare le violette; e le aveva anche insegnato ad amare le stoffe «tutte di lana», portandola in Germania dopo la guerra quindici-diciotto; essendo in Germania la lana pura, dopo la guerra, introvabile.
Il libraio, tornando a Friburgo dopo la guerra, aveva esclamato:
– Non riconosco più la mia Germania!
Frase rimasta famosa in casa nostra, e che mia madre usava declamare, ogni volta che le succedeva di non riconoscere qualcosa o qualcuno.
Mio padre, quell’estate, dalla montagna, tenne un lungo carteggio e con Gino in Germania, e con i Lopez e i Terni, e con l’ingegner Olivetti, sempre a proposito di quel matrimonio; e ai Terni, ai Lopez, all’ingegner Olivetti, mio padre scriveva che dovevano dissuadere Gino dallo sposarsi, a venticinque anni e senza ancora una carriera avviata.
– Chissà se avrà visto la Grassi? – diceva ogni tanto mia madre pensando a Gino, quell’estate; e mio padre s’infuriava:
– La Grassi! M’importa assai che abbia visto la Grassi! Sembra che in Germania ci sia soltanto la Grassi! Non voglio assolutamente che Gino si sposi!
Gino tuttavia si sposò, al suo ritorno dalla Germania, come aveva dichiarato che avrebbe fatto; e mio padre e mia madre andarono al suo matrimonio. Però mio padre, svegliandosi nella notte, ancora diceva:
– Se l’avessi mandato in Argentina, da Mauro, invece che a Ivrea! chissà, forse in Argentina non si sarebbe sposato!
Avevamo cambiato casa; e mia madre, che s’era sempre lamentata della casa di via Pastrengo, ora si lamentava della nuova casa. La nuova casa era in via Pallamaglio. – Che brutto nome! – diceva sempre mia madre. – Che brutta strada! Non posso soffrire queste strade, via Campana, via Saluzzo! E almeno in via Pastrengo avevamo il giardino!
La nuova casa era all’ultimo piano e guardava su una piazza, dove c’era una brutta e grossa chiesa, una fabbrica di vernici e uno stabilimento di bagni pubblici; e a mia madre nulla sembrava più squallido che vedere, dalle finestre, uomini che entravano ai bagni pubblici con un asciugamano sotto il braccio. Mio padre, quella casa, l’aveva addirittura comprata, perché diceva che costava poco, e che non era bella ma aveva dei vantaggi, era molto vicina alla stazione, ed era grande, aveva tante stanze.
Mia madre disse:
– Cosa importa che stiamo vicino alla stazione, noi che non partiamo mai?
Qualcosa doveva essere migliorato, nelle nostre condizioni economiche, perché si parlava un po’ meno di soldi; le Immobiliari, loro, scendevano sempre, a sentire mio padre, e a quest’ora dovevano essere, io pensavo, inghiottite nelle profondità della terra; tuttavia mia madre e mia sorella si facevano più vestiti. Adesso anche noi avevamo il telefono, come i Lopez. Le parole caroviveri e caro-pane non venivano pronunciate più. Gino abitava con sua moglie a Ivrea; Mario aveva un impiego a Genova, e solo il sabato veniva a casa.
Alberto era stato messo, dopo molte incertezze e discussioni, in collegio. Mio padre sperava che ci restasse male, e si pentisse e si ravvedesse a quel severo castigo; e mia madre invece gli diceva: – Vedrai come stai bene! vedrai come ti diverti! Vedrai come si sta bene in collegio! Io nel mio collegio, com’era bello, come mi son divertita!