Il futuro regalato dalla Olivetti agli americani

Intervista a Franco Tatò 

Inter­vi­sta aper­ta ad uno dei pochi mana­ger che van­ta­no 60 anni di memo­ria sul­l’I­ta­lia. Cor­ru­zio­ne, pas­si fal­si, poli­ti­ciz­za­zio­ne scon­si­de­ra­ta: il mana­ge­ment ita­lia­no sot­to la lente.
 

a Fran­co Tatò ti aspet­ti la scor­za per­ché ce ne sono a deci­ne di aned­do­ti sul suo piglio deci­sio­ni­sta e intran­si­gen­te; quan­ti luo­ghi comu­ni sugli altri. Dagli anni ’50 ad oggi, sot­to di lui sono pas­sa­te le sto­rie azien­da­li di Oli­vet­ti, Mon­da­do­ri, Finin­ve­st, Enel e in mez­zo alle sto­rie anche le per­so­ne: De Bene­det­ti e Ber­lu­sco­ni su tut­ti, rap­por­ti con­flit­tua­li ma schiet­ti, e ricor­di anco­ra accesi.

Mi aspet­ta nel suo stu­dio di Mila­no, i Navi­gli ci guar­da­no le spalle.

Gli por­to subi­to i salu­ti di Ric­car­do Rug­ge­ri, colon­na come lui di quel mana­ge­ment ita­lia­no d’altri tem­pi. Gen­te drit­ta, gen­te pre­pa­ra­ta. Nel 1997 scris­se­ro insie­me “Esse­re com­pe­ti­ti­vi. Le sto­rie di due pro­ta­go­ni­sti” (Dalai Edi­to­re): entram­bi con le spal­le gros­se, cre­sciu­te den­tro i gran­di grup­pi indu­stria­li che vole­va­no mana­ger come loro per risa­na­re, fon­de­re e acqui­si­re; fon­da­men­tal­men­te li chia­ma­va­no per capi­re ciò che sfug­gi­va agli occhi dei medio­cri. In quel­le pagi­ne rac­con­ta­no a quat­tro mani ciò che ades­so vie­ne chia­ma­to re-enge­nee­ring mana­ge­ria­le da tut­ti quel­li che vivo­no e lavo­ra­no col migno­lo alza­to: tut­ti gli altri la chia­ma­no capa­ci­tà di ade­ri­re ai poten­ti cam­bia­men­ti del mer­ca­to sen­za subir­li. Tutt’altro, cavalcandoli.

Si diver­te anco­ra a scrivere? 

È una dimen­sio­ne che di cer­to mi appartiene.

Mi col­pi­sce dal pri­mo istan­te, di un’eleganza in cui gli abi­ti non con­ta­no. Ha i pen­sie­ri ele­gan­ti, quest’uomo. Gli guar­do le mani che si muo­vo­no sul­le paro­le sen­za voler­le copri­re. Si è let­to tal­men­te tan­to di lui – e det­to anche di più, dal “Kai­ser Franz al mana­ger filo­so­fo” – che appe­na me lo tro­vo davan­ti cam­bio rot­ta, le inter­vi­ste fac­cia a fac­cia han­no il bel­lo del fuo­ri pro­gram­ma. In pochi istan­ti mi rico­strui­sco in testa la trac­cia di doman­de. Ora che ce l’ho di fron­te, non tro­vo inte­res­san­te rivi­ve­re con lui la sua sto­ria di mana­ger negli anni chia­ve dell’industria ita­lia­na ma rileg­ge­re con lui sto­ria e cul­tu­ra mana­ge­ria­le che si è visto pas­sa­re accan­to. Mi ser­ve un Tatò tra­dut­to­re e inter­pre­te, e cre­do ser­va a mol­ti altri.

Par­tia­mo dai suoi stu­di filo­so­fi­ci, fat­ti per scel­ta e non per stra­te­gia di cal­co­lo sul­la ricer­ca di un lavo­ro sicu­ro. È il tema attua­lis­si­mo che incom­be anche sui gio­va­ni di oggi: si stu­dia per sé o per il mercato? 

Media­men­te la pon­go­no così la que­stio­ne, ed è un fal­so pro­ble­ma. Pen­so che le per­so­ne dovreb­be­ro stu­dia­re sem­pre con un pro­get­to in testa. Nel mio caso, cer­to, tut­to è sta­to ati­pi­co per­ché ini­ziai a stu­dia­re filo­so­fia che ave­vo in men­te una car­rie­ra acca­de­mi­ca. Dopo la lau­rea, però, andai per oltre un anno in Ame­ri­ca ad Har­vard, era il 1955, e fu for­te lo shock del con­fron­to con la cul­tu­ra capi­ta­li­sta, ame­ri­ca­na, velo­ce, per que­gli anni moder­nis­si­ma. Tor­nan­do poi in Ita­lia,  non riu­sci­vo più a non vede­re que­sto nostro mon­do come pic­co­lo, stret­to, dif­fi­ci­le. Le car­rie­re acca­de­mi­che era­no fat­te già allo­ra di tem­pi lun­ghis­si­mi e paro­le ridi­co­le. Mi pre­se una furia inte­rio­re e scris­si una let­te­ra ad Adria­no Oli­vet­ti che la les­se di per­so­na, e mi invi­tò subi­to a Tori­no il lune­dì suc­ces­si­vo. Era gio­ve­dì quan­do mi comu­ni­ca­ro­no l’incontro.

Cosa scris­se ad Olivetti? 

Sem­pli­ce­men­te chi ero, cosa ave­vo stu­dia­to e che arri­va­vo da un’esperienza inten­sa ad Har­vard. Di sicu­ro ave­vo toc­ca­to una cor­da sen­si­bi­le per­ché lui e la sua fami­glia si era­no for­ma­ti in Ame­ri­ca, anche il padre ave­va stu­dia­to là. Non ave­vo fat­to una let­te­ra implo­ran­te, ci man­che­reb­be, ma one­sta sì su me stes­so e sul mon­do che ave­vo intor­no. Fui assun­to e lì ini­ziò la stra­da clas­si­ca. Lavo­rai per set­te anni come diret­to­re del per­so­na­le a Ivrea che poi è sem­pre una posi­zio­ne ambi­gua quel ruo­lo lì, non si chia­ma­va­no anco­ra risor­se uma­ne, le cose ave­va­no il loro nome e non esi­ste­va tut­to il fin­to poli­ti­cal­ly cor­rect di oggi. Gestii par­te azien­da­le e sin­da­ca­le, tur­bo­len­ze del ’68 compreso.

Fare il diret­to­re del per­so­na­le è spes­so un ruo­lo equi­vo­co se non lo sai gesti­re, non puoi esse­re né sem­bra­re ami­co dei col­le­ghi. Lo feci per un lun­go perio­do anche in Ger­ma­nia, cono­scen­do il tede­sco mi man­da­ro­no a Fran­co­for­te; un’idea biz­zar­ra, secon­do me, man­dar­mi là ma comun­que mi è ser­vi­to e non rim­pian­go nulla.

Diver­so fare il capo del per­so­na­le in Germania?

La dif­fe­ren­za prin­ci­pa­le, in quel set­to­re, era la tota­le assen­za di con­flit­tua­li­tà con le mae­stran­ze. Tro­vai tan­tis­si­me for­me di col­la­bo­ra­zio­ne dia­let­ti­ca in Ger­ma­nia: le rego­le c’erano e veni­va­no accet­ta­te, pri­ma anco­ra che rispet­ta­te da tut­ti. Quel­la fu la mia alba per­ché poi di espe­rien­ze azien­da­li tede­sche ne feci altre, di sicu­ro più complesse.

La sto­ria sareb­be lun­ga ma la fac­cio bre­ve. Entrai più vol­te in con­flit­to con il nuo­vo diret­to­re del­la Deu­tsche Oli­vet­ti, un paz­zo chia­ma­to dall’Argentina che face­va erro­ri pac­chia­ni e non sape­va una paro­la di tede­sco. Fu lui a chie­de­re che mi ripren­des­se­ro in Ita­lia e per puni­zio­ne mi man­da­ro­no a Mila­no, non più a Ivrea, a fare il capo del per­so­na­le in Oli­vet­ti Gene­ral Elec­tric, la divi­sio­ne elet­tro­ni­ca di casa che era sta­ta appun­to cedu­ta agli ame­ri­ca­ni ed era appe­na nata.

Cosa impa­ra­no i mana­ger ita­lia­ni da una cul­tu­ra americana?

Con gli ame­ri­ca­ni ho impa­ra­to for­se tut­to. Le azien­de ame­ri­ca­ne han­no una osses­sio­ne mania­ca­le per la for­ma­zio­ne, nel­la mia car­rie­ra pro­fes­sio­na­le gra­zie a loro ho fat­to non so quan­ti cor­si di mana­ge­ment, comu­ni­ca­zio­ne, mar­ke­ting, ammi­ni­stra­zio­ne, pro­gram­ma­zio­ne. Se non ti for­ma­no, non cre­sci tu e non cre­sce il siste­ma azien­da­le. Cor­si fat­ti a 360 gra­di, per ben cin­que anni. Fu in que­sta fase che ini­ziai a occu­par­mi di mar­ke­ting, lascian­do alle spal­le la via del personale.

Col­lo­chia­mo la Oli­vet­ti di que­gli anni.

Sia­mo alla metà degli anni ’60, ini­zio ’70. Si chia­ma­va OGE (Oli­vet­ti Gene­ral Elec­tric) e ave­va appe­na lan­cia­to il 101, che biso­gna­va ini­zia­re a piaz­za­re a livel­lo inter­na­zio­na­le. Io con la GE ho assor­bi­to una filo­so­fia di mana­ge­ment che per noi ita­lia­ni era a dir poco rivo­lu­zio­na­ria nono­stan­te venis­si da un’esperienza di altis­si­mo livel­lo fat­ta in Olivetti.

Adria­no Oli­vet­ti rie­sce tut­to­ra ad esse­re un faro per mol­ti. Vuol dire che in Ita­lia ci sia­mo fer­ma­ti a quel model­lo, che nes­su­no dei nostri è sta­to più in gra­do di fare pas­si avan­ti o che lo abbia­mo sopravvalutato?

Pen­so che Oli­vet­ti sia sta­ta una splen­di­da espe­rien­za ma che vada col­lo­ca­ta in quel perio­do sto­ri­co, che vuol dire anni ’50. Trop­po spes­so si dimen­ti­ca che, già agli ini­zi degli anni ’60, Oli­vet­ti entra­va in una cri­si spa­ven­to­sa quin­di tut­to que­sto filo­so­feg­gia­re va rap­por­ta­to anche a fasi di difficoltà.

Uno spes­so­re cul­tu­ra­le dei mana­ger ita­lia­ni allo­ra c’è sta­to. Vie­ne da chie­der­se­lo per­ché l’Italia indu­stria­le degli ulti­mi decen­ni non bril­la né per com­pe­ten­za né per sensibilità. 

Spes­so­re ce n’è sta­to e come. Il nostro pro­ble­ma è sta­to l’esasperante pro­ces­so di poli­ti­ciz­za­zio­ne su tut­to. Poli­ti­ciz­za­re da noi vuol dire scam­bio di favo­ri, a un cen­to pun­to in Ita­lia abbia­mo sosti­tui­to la valu­ta­zio­ne obiet­ti­va dei risul­ta­ti con la capa­ci­tà di fare favo­ri o ricam­biar­li. Gli ita­lia­ni si sono mes­si a cer­ca­re con­sen­si per cer­ca­re di resta­re al pote­re ed è que­sto che ha intro­dot­to la radi­ce del nostro pro­ble­ma pro­fon­do: la corruzione.

A un cer­to pun­to l’Italia si è infet­ta­ta e il ’68 ha con­tri­bui­to a raf­for­za­re il valo­re del­la poli­ti­ca a ogni livel­lo e a ogni costo, nono­stan­te i buo­ni slo­gan, le buo­ne paro­le e i buo­ni pro­po­si­ti pie­ni di imma­gi­na­zio­ne. In pra­ti­ca si rive­la­ro­no espe­dien­ti per allon­ta­nar­si da un con­fron­to com­pe­ti­ti­vo fat­to di fati­ca, impe­gno e merito.

Gli ita­lia­ni sono trop­po distan­ti dal­la com­pe­ti­zio­ne o dal­la fatica?

L’unico para­me­tro che testi­mo­nia la serie­tà impren­di­to­ria­le di un Pae­se è la pro­dut­ti­vi­tà e da noi con­ti­nua a scen­de­re, ormai da trop­po tempo.

Allo­ra è un pro­ble­ma più alto: di mana­ge­ment e non del­la base.

Il pro­ble­ma ita­lia­no è soprat­tut­to un pro­ble­ma di mana­ge­ment. Il caso Oli­vet­ti lo dimo­stra: per una serie di moti­vi, lui ave­va una com­pa­gi­ne pro­fes­sio­na­le di livel­lo mai visto pri­ma. Non ho mai tro­va­to da nessun’altra par­te un simi­le livel­lo di cul­tu­ra e nel dire cul­tu­ra inten­do il sape­re in ogni sua espres­sio­ne, anche tec­no­lo­gi­ca ovvia­men­te. Lì den­tro si respi­ra­va uno spes­so­re dif­fu­so, per­so­ne moti­va­te, rap­por­ti uma­ni che era raro tro­va­re altro­ve. Ma tut­to que­sto a un cer­to pun­to spa­ri­sce e il respon­sa­bi­le del­la fine è solo Car­lo De Bene­det­ti che si sie­de in Oli­vet­ti per un col­po for­tu­na­to e, vit­ti­ma di que­sto com­ples­so, lo sfrut­ta a suo bene­fi­cio per­so­na­le, non cre­den­do­ci e non rite­nen­do­si capa­ce di iden­ti­fi­car­si col pas­sa­to di Oli­vet­ti. E non capi­sce che il futu­ro del­la Oli­vet­ti pote­va esse­re il futu­ro dell’Italia e che si pote­va costrui­re un futu­ro solo valo­riz­zan­do il suo passato.

De Bene­det­ti e l’avversità per Oli­vet­ti. In cosa, soprattutto?

Lui non era un uomo di pro­dot­to ma di nume­ri: sul­la finan­za era inar­ri­va­bi­le. Ho impa­ra­to più da lui che da chiun­que altro se par­lia­mo di ope­ra­ti­vi­tà e finan­za. Una mac­chi­na da guer­ra. Potrei fare un elen­co dei suoi erro­ri ma mi limi­to a que­sto para­dos­so, il primo.

Quan­do una doz­zi­na di ragaz­zi fa nasce­re la Micro­soft, il com­pu­ter era già sta­to inven­ta­to a Palo Alto ed era par­ti­ta anche la Com­mo­do­re. In que­sto mon­do varie­ga­to di fer­ra­glia sul­le scri­va­nie, entra quin­di IBM col suo pc: tec­no­lo­gi­ca­men­te per­fet­to e gran­de affi­da­bi­li­tà, oltre alla capa­ci­tà di esse­re distri­bui­to in tut­to il mondo.

De Bene­det­ti che fa? Piut­to­sto che pren­de­re in mano la situa­zio­ne, e risor­se e stru­men­ti e com­pe­ten­ze non gli man­ca­va­no cer­to, deci­de di non svi­lup­pa­re il soft­ware per que­sto com­pu­ter e affi­da nien­te­me­no che il siste­ma ope­ra­ti­vo ad una azien­da ester­na, che diven­te­rà poi la Micro­soft col gio­va­ne Bill Gates; tut­ti si doman­da­va­no per­ché. Ave­va­no appe­na fat­to la pri­ma del­le rivo­lu­zio­ni, vale a dire non sca­te­na­re le resi­sten­ze di Micro­soft e avvia­re l’epoca dei siste­mi aper­ti. A quel pun­to IBM sepa­ra l’attività di svi­lup­po e assi­sten­za dei clien­ti nel­le appli­ca­zio­ni. Se oggi abbia­mo lo svi­lup­po del­le tec­no­lo­gie è gra­zie a que­sta aper­tu­ra di IBM. Quel­li del­la mia gene­ra­zio­ne han­no sem­pre avu­to una cer­ta repul­sio­ne per IBM ma ser­ve esse­re one­sti e non si può non defi­nir­li visio­na­ri. Sen­za IBM non sareb­be­ro nati gli svi­lup­pa­to­ri libe­ri e quel­li che oggi fan­no le app: uomi­ni, quel­li, di una mode­stia spa­ven­to­sa. Secon­do erro­re di De Bene­det­ti: paral­le­la­men­te Oli­vet­ti ave­va svi­lup­pa­to un pc, M20, tec­no­lo­gi­ca­men­te impec­ca­bi­le. Avviam­mo il dibat­ti­to inter­no e com­pram­mo un siste­ma ope­ra­ti­vo ma ci impo­se­ro una deci­so­ne fer­rea: il siste­ma ope­ra­ti­vo sareb­be sta­to chiu­so. Fu il pun­to di non ritor­no dell’Italia.

Come si arri­vò a quell’autogol?

Il mana­ge­ment non era già più illu­mi­na­to. Io ero alla dire­zio­ne com­mer­cia­le di tut­te le real­tà inter­na­zio­na­li e mi misi in una oppo­si­zio­ne fer­rea. Accad­de che men­tre la Oli­vet­ti sta­va nego­zian­do acqui­si­zio­ni e fusio­ni, si dimi­se il capo e tut­to il mana­ge­ment del­la Oli­vet­ti ame­ri­ca­na. “Tatò, vai tu a copri­re que­sta posi­zio­ne, tie­ni­la cal­da in atte­sa che da qui nomi­nia­mo qual­cu­no”. Ho visto così coi miei occhi, era­no i pri­mi anni ’80, cosa suc­ce­de­va nel distri­bui­re l’M20. Non ven­de­va­mo nien­te e pena­re che era­no gli anni dei pc. Mi inven­tai una fol­lia che mi costò qua­si la testa, ma non mi ras­se­gna­vo. Per 50.000 dol­la­ri com­prai da un’azienda del New Jer­sey un simu­la­to­re con un baga­glio di pro­gram­mi infi­ni­to, lo cari­cai sopra l’M20 che anda­va sì più len­to ma ave­va final­men­te dei pro­gram­mi. Un Oli­vet­ti M20 simu­la­to Com­mo­do­re. Lo ave­vo annun­cia­to uffi­cial­men­te, nien­te di segre­to o con­traf­fat­to, ma que­sta mia sfi­da non fu apprez­za­ta: vole­vo far arri­va­re un mes­sag­gio mol­to chia­ro eppu­re il mio mana­ge­ment se la pre­se e come. Con De Bene­det­ti era­va­mo già ad una secon­da cri­si di Oli­vet­ti. In quel perio­do ven­ne assun­to come Diret­to­re gene­ra­le l’ingegnere Simo­ne Fubi­ni, anche lui tori­ne­se, pro­get­ti­sta del main­fra­me Oli­vet­ti, bra­vis­si­mo. Fubi­ni ini­zia a lavo­rar e capi­sce al volo i pro­ble­mi inter­ni. Un pic­co­lo grup­po di pro­get­ti­sti ave­va intan­to svi­lup­pa­to un pic­co­lo com­pu­ter com­pa­ti­bi­le IBM, una copia del pc IBM: lo chia­ma­ro­no M24, lo annun­cia­ro­no sul mer­ca­to come com­pa­ti­bi­le IBM usan­do quin­di il siste­ma ope­ra­ti­vo Micro­soft e con un boom spet­ta­co­la­re ne furo­no ven­di­te in un anno più di 750 mila. Era il 1982: Fubi­ni ave­va avu­to suc­ces­so e per que­sto ven­ne licen­zia­to. Pura gelo­sia, nien­te di più, non ho altro da aggiungere.

Auto­di­stru­zio­ne, insomma.

Simo­ne Fubi­ni tor­ne­rà poi nel­la mia sto­ria per­ché i meri­ti del­le per­so­ne vali­de van­no pri­ma o poi ono­ra­ti. Lo chia­mai per lo svi­lup­po del con­ta­to­re elet­tro­ni­co dell’Enel. Il pro­get­to è mio ma l’ho fat­to rea­liz­za­re da Fubi­ni. Non solo riu­scim­mo a rea­liz­zar­lo ma in Ita­lia ne instal­lam­mo ben 33 milioni.

Altra epo­ca per lei, quel­la di Enel. Che Ita­lia era, vent’anni dopo?

Era un’altra sto­ria di cui Fubi­ni rac­con­ta i para­dig­mi. Lo richia­mai non solo per la sua bra­vu­ra ma anche per tut­ta la sti­ma che ripo­ne­vo in lui. Uno scam­bio vero. Men­tre quei dodi­ci di Micro­soft  con­qui­sta­va­no IBM, noi ave­va­mo 750 soft­wari­sti di livel­lo altis­si­mo ad Ivrea, tut­ti inge­gne­ri dal Poli­tec­ni­co di Tori­no e di Mila­no, oltre a gen­te che ave­va stu­dia­to in Ame­ri­ca, capa­ci di svi­lup­pa­re qual­sia­si cosa ma mes­si a svi­lup­pa­re put­ta­na­te che nes­su­no voleva.

Il mana­ge­ment di Oli­vet­ti si era incar­ta­to nel­la linea poli­ti­ca e la base finan­zia­ria in cri­si ren­de­va tut­to più dif­fi­ci­le, tra ces­sio­ni e acqui­si­zio­ni confuse.

Il caso Oli­vet­ti andreb­be stu­dia­to oggi non per ricor­da­re il fon­da­to­re ma per capi­re come il deca­di­men­to di un mana­ge­ment abbia gio­ca­to un ruo­lo deci­si­vo per l’Italia inte­ra: un siste­ma mana­ge­ria­le inse­ri­to in un Pae­se che non rischia, che non finan­zia, che ha pau­ra, che si incarta.

La pau­ra degli italiani.

Fare il mana­ger in Ita­lia è un lavo­ro dif­fi­ci­lis­si­mo per­ché per deci­de­re ogni cosa occor­re supe­ra­re una marea di osta­co­li e, se non sei un gran­de atle­ta del­le impre­se, non ce la puoi fare. Osta­co­li giu­ri­di­ci, sin­da­ca­li, nor­me di sicu­rez­za, cavil­li fisca­li. Negli altri Pae­si non è così e infat­ti gli ita­lia­ni all’estero sono veri e pro­pri fulmini.

Tan­ti osta­co­li eppu­re tan­ta cor­ru­zio­ne: qual­co­sa non mi torna.

Così tan­ti osta­co­li ven­go­no mes­si pro­prio in rispo­sta ad una cul­tu­ra cor­rut­ti­va. Le rego­le in Ita­lia ven­go­no mes­se non per impe­di­re ma per incas­sa­re sol­di o favo­ri. Di più auto­riz­za­zio­ni o dero­ghe hai biso­gno, più per­so­ne pos­so­no ave­re in cam­bio una man­cia, e la chia­mo man­cia per tener­mi bas­so. Spes­so le tan­gen­ti ven­go­no paga­te non per vio­la­re la leg­ge ma per poter fare ciò a cui si avreb­be già dirit­to: è un para­dos­so ma è tut­to vero. L’Italia è così: quan­do te ne allon­ta­ni, allo­ra respi­ri e rie­sci a lavo­ra­re in un siste­ma com­ples­si­vo favo­re­vo­le alle impre­se. Qui è tut­to un “non si può fare”.

Il mana­ge­ment è fat­to di con­si­glie­ri e di CdA di cui nes­su­no par­la, si cita sem­pre il vertice.

Ma pos­si­bi­le che sia­no tut­ti delin­quen­ti in Ita­lia? No, non ci cre­do e non è così. Di fat­to i con­si­glie­ri non pos­so­no fare nien­te, imbri­glia­ti come sono dal­le nor­me. Sono raris­si­me le azien­de ita­lia­ne in cui i CdA deci­do­no qual­co­sa, sono solo meri ese­cu­to­ri. Se esclu­de i gran­di nomi, le azien­de medie ita­lia­ne dan­no com­pen­si ridi­co­li ai con­si­glie­ri per­ché nes­su­no vuo­le che i con­si­glie­ri lavo­ri­no e deci­da­no. Ser­vo­no solo ese­cu­to­ri e quin­di devo­no sta­re mol­to atten­ti a come muo­ver­si nei CdA per­ché alla fine rischia­no di rispon­de­re coi pro­pri patri­mo­ni. Non so quan­ti CdA ricor­do in cui pas­sa­va­mo ore e ore a par­la­re solo di pro­ce­du­re inter­ne. CdA svuo­ta­ti, solo mastur­ba­zio­ni giu­ri­di­che e fiu­mi di con­su­len­ze ester­ne paga­te per chie­de­re con­fer­me e sta­re tran­quil­li. Per me è sta­ta una fati­ca enor­me non poter fare ciò per cui un con­si­glie­re dovreb­be esse­re paga­to: deci­de­re per il bene dell’azienda e di un siste­ma indu­stria­le collettivo.

Quan­do si è sen­ti­to final­men­te libe­ro di espri­me­re la sua crea­ti­vi­tà manageriale?

In Ita­lia mi sono sen­ti­to libe­ro sol­tan­to nei pri­mi due anni in Enel col gover­no Pro­di e la tria­de Pro­di-Ber­sa­ni-Ciam­pi. Era­no gli anni ’96-’98. Sta­va­no rifor­man­do il Pae­se e la nostra pri­va­tiz­za­zio­ne di Enel l’abbiamo fat­ta in appe­na un anno e mez­zo, pen­si al con­tra­rio ai tem­pi di Tele­com. Non è che non abbia­mo avu­to dif­fi­col­tà e osta­co­li, noi ave­va­mo sem­pli­ce­men­te la sen­sa­zio­ne di esse­re par­te­ci­pi di un gran­de pro­get­to ita­lia­no e il gover­no in que­sto ci aiu­ta­va. Quan­do fui nomi­na­to Ammi­ni­stra­to­re dele­ga­to di Enel e Chic­co Testa Pre­si­den­te, sia­mo entra­ti insie­me in uffi­cio e abbia­mo tro­va­to sul­la scri­va­nia la stes­sa let­te­ra. “Con­gra­tu­la­zio­ni. Ricor­da­te­vi che il vostro com­pi­to è razio­na­liz­za­re e pri­va­tiz­za­re. Fir­ma­to Car­lo Aze­glio Ciam­pi”. Solo due righe ma inten­se nel loro mes­sag­gio, capi­sce? Quan­do il siste­ma fun­zio­na, il lavo­ro gira.

Gli occhi gli si fan­no luci­ci di col­po e la voce rom­pe il rit­mo, per un atti­mo ha come rivi­sto quel­la busta e rilet­to le due righe. Men­tre cita­va le paro­le di Ciam­pi, la mano destra si muo­ve­va come se le stes­se scri­ven­do di nuo­vo. Si sof­fia il naso e si scu­sa del raf­fred­do­re, pren­de in mano un faz­zo­let­to e lascia il tavo­lo. “Tor­no subi­to, mi scu­si”. Raf­fred­do­ri e com­mo­zio­ni lacri­ma­no del­la stes­sa natu­ra­lez­za, pen­so io. Lo scu­so e come, anzi tra me e me lo rin­gra­zio di aver tira­to giù le vesti al vec­chio Kaiser.

Lei è sem­pre sta­to un uomo inci­si­vo, nel­la sua car­rie­ra: i tagli van­no fat­ti solo in bas­so, tra i col­la­bo­ra­to­ri, o dovrem­mo sfor­bi­cia­re più spes­so anche nel management?

Il mon­do di oggi è sen­za pie­tà per­ché è sta­to glo­ba­liz­za­to sen­za pie­tà. Vivia­mo di para­go­ni e i para­go­ni sono ormai a livel­lo glo­ba­le, impie­to­si per noi ita­lia­ni. Se vai pia­no e per di più non gui­di bene, ti vede tut­to il mon­do. Le ho risposto?

Ci salu­tia­mo, nel frat­tem­po ci ha rag­giun­ti anche la moglie. L’unico libro che ha in vista sul tavo­lo è di Mal­leus, sto­ri­co ama­nuen­se di Recanati.

Sa che Mal­leus ha scrit­to e dipin­to la mia per­ga­me­na di lau­rea? Mi incu­rio­si­sce sape­re come lei pos­sa inter­pre­ta­re il suo lavo­ro di calligrafo.

È un libro mol­to diver­ten­te. La cal­li­gra­fia è anche uno stru­men­to di meditazione.

Di cosa si occu­pa, oggi, Fran­co Tatò?

Visto da fuo­ri non mi occu­po di nien­te. In real­tà osser­vo, deci­fro e cer­co di non incaz­zar­mi più di tan­to. Devi accet­ta­re che hai fat­to il tuo tempo.

Un’ultima nota su ciò che non le è sta­to per­mes­so di rea­liz­za­re negli anni di lavo­ro. Un epi­so­dio ci sarà pure.

Tor­no a riba­di­re la mia delu­sio­ne per una Oli­vet­ti che sareb­be potu­ta diven­ta­re una poten­za tec­no­lo­gi­ca inter­na­zio­na­le. Cre­do che sarei potu­to esse­re la per­so­na giu­sta per gui­dar­la: ave­vo le com­pe­ten­ze, il carat­te­re, le atti­tu­di­ni. Ma De Bene­det­ti mi ha licen­zia­to, anzi mi ha fat­to licen­zia­re dal Diret­to­re del per­so­na­le, sen­za nem­me­no spie­gar­mi nul­la per­ché del resto non c’era nul­la da spie­ga­re. Con lui c’era una distan­za asso­lu­ta e una fred­dez­za tota­le nono­stan­te i tan­ti anni lavo­ra­ti e vis­su­ti insieme.

Come sta la nostra Italia? 

Le socie­tà sono orga­ni­smi viven­ti e come tut­ti gli orga­ni­smi viven­ti si amma­la­no: ecco, anche la socie­tà ita­lia­na si è infet­ta­ta. Stia­mo viven­do un’epoca del­la cono­scen­za, oggi il diva­rio non è più tra ric­chi e pove­ri ma tra chi sa e chi non sa. Noi ci stia­mo affac­cian­do a quest’epoca qua­si com­ple­ta­men­te impre­pa­ra­ti per­ché per sape­re biso­gna capi­re e negli ulti­mi decen­ni abbia­mo capi­to poco e par­la­to trop­po. L’intelligenza arti­fi­cia­le è un pas­sag­gio anco­ra suc­ces­si­vo, noi sia­mo indie­tro anche su que­sto. È un immen­so pec­ca­to per­ché l’Italia ne avreb­be di intel­li­gen­za ma qual­che ger­me ha intac­ca­to il siste­ma. Abbia­mo tut­ti una cul­tu­ra del sospet­to, del­lo scam­bio di favo­re, del gio­co al ribas­so. Temo che l’infezione sia sta­ta pro­prio questa.

da http://www.informazionesenzafiltro.it