La Saga degli Olivetti è un titolo di un dettagliato articolo apparso sul quotidiano “il Giornale” diretto da Indro Montanelli nel lontano 31 Maggio 1978 a firma di Geo Pampaloni, solo pochi giorni prima c’era stata la notizia che l’ing. Carlo De Benedetti, fatto fuori dalla Fiat, aveva acquisito il controllo del pacchetto azionario del storica azienda Olivetti di Ivrea.
Il libro dallo stesso titolo, scritto a più mani da Vigo Avalle, Ugo Aluffi e Pino Ferlito con la ricerca iconografica di Giuseppe De Rinaldis ripercorre lo stesso principio a distanza di oltre trent’anni da quell’evento, quando di Olivetti era scomparso perfino il titolo dalla borsa e tutto per volontà dei successori di Carlo De Benedetti, che nel frattempo aveva gettata la spugna nel settembre del 1996 non riuscendo ad avere più credito da Mediobanca.
Come scrive Luigi Sergio Ricca presidente della Provincia di Torino nel capitolo “il nostro Adriano” , il volume rappresenta un po’ una riparazione alla colpevole disattenzione che c’era stata per la memoria di un uomo che tanto fece per la cultura italiana, per il Piemonte, per il Canavese.
“Il nostro Adriano”. Sì, proprio “nostro”, questo Adriano. Nostro nel senso più pieno del termine: non soltanto degli au-tori del libro, ma di tutti noi che pure in questi anni ne abbiamo disconosciuto l’opera. Nostro in primo luogo e soprattutto come uomo. Lo scopo di gran parte della sua ricerca infatti consiste nello studio appassionato di tutte le possibilità di conciliazione fra la dimensione umana e quella industriale produttiva del lavoro. Non è un tema qualsiasi, ma è uno dei temi fondamentali della cultura occidentale. Può l’uomo rimanere tale in un mondo desti-nato a innalzare a idolo la produzione materiale? E come è possibile, d’altra parte, promuovere il progresso dell’umanità in presenza di posizioni che arrivano a demonizzare l’industria e la tecnologia? Occorre equilibrio, gradualità, fiducia nella ragione. Adriano Olivetti — occorre sottolinearlo — opera in un mondo assai diverso da quello in cui viviamo. Il socialismo democratico era stato battuto da decenni nel nostro Paese, e l’industrialismo, agli albori della sua esplosione definitiva, non aveva ancora espresso quella visione illuminata che fu tipica in Adriano Olivetti e che distingue una società moderna dall’era dei padroni delle ferriere. Per questo tenta in ogni momento di dimostrare che la fabbrica è “un bene comune, non un interesse privato”. All’interno di questa prospettiva va collocata quella parte del programma olivettiano, consistente nel “rendere la fabbrica e l’ambiente circostante economicamente solidali”. Qui nasce l’Idea di Comunità. L’uomo sta alla tecnologia come la fabbrica sta al territorio: non come due nemici, ma come due elementi armonici dello stesso paesaggio geografico, sociale e colturale.
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