L’Olivetti “colta” di Adriano non poteva non fallire, era troppo piena di cervelli per funzionare.

Pro­po­nia­mo il rac­con­to-testi­mo­nian­za di Ric­car­do Rugge­ri (ex ope­ra­io diven­ta­to mana­ger e edi­to­re), pub­bli­ca­to su «Ita­liaOg­gi» di ieri, sul suo «incon­tro» con la Oli­vet­ti da ope­raio Fiat. Una pro­spet­ti­va inu­sua­le sull’azienda e la figu­ra di Adria­no Oli­vet­ti, appe­na cele­bra­ta da una fic­tion di Rai 1 con pro­ta­go­ni­sta Zingaretti.

Mol­ti let­to­ri mi han­no scrit­to chie­den­do­mi di com­men­ta­re il fil­ma­to di Rai 1 su Adria­no Oli­vet­ti. Sono cer­to che si rife­ri­sca­no non alla qua­li­tà del­lo stes­so ma alla figu­ra del per­so­nag­gio. Su Adria­no Oli­vet­ti è sta­to scrit­to mol­to, essen­do sta­to un «pro­tet­to­re» di arti­sti e di intel­let­tua­li, e uomo di sini­stra, ha godu­to e gode di buo­nis­si­ma stam­pa. Da par­te mia, nes­sun giu­di­zio sul­l’uo­mo, sul­l’in­tel­let­tua­le, sul poli­ti­co, sul mece­na­te. Mi inte­res­sa solo l’im­pren­di­to­re, lo rac­con­to attra­ver­so un pic­co­lo epi­so­dio per­so­na­le, chi vuo­le può con­si­de­rar­lo un «segna­le debo­le», se cre­de trag­ga le sue conclusioni.

 

Alla metà degli anni ’50 lavo­ra­vo alla Fiat Mira­fio­ri come ope­ra­io di 2° cate­go­ria, un gior­no rice­vet­ti una let­te­ra del­l’O­li­vet­ti che mi invi­ta­va a Ivrea per un col­lo­quio. Incon­trai Nico­la Tufa­rel­li, allo­ra gio­va­ne capo del per­so­na­le del­le pro­du­zio­ni. Mi spie­gò il moti­vo del­la con­vo­ca­zio­ne: una pro­po­sta di assun­zio­ne come ope­ra­io, dise­gnò un affa­sci­nan­te sce­na­rio sul futu­ro del­l’O­li­vet­ti e, al ter­mi­ne, con squi­si­ta deli­ca­tez­za, mi die­de una busta con del­le ban­co­no­te, che rap­pre­sen­ta­va­no il rim­bor­so del viag­gio da e per Ivrea, e di un pasto al risto­ran­te. Dato l’im­por­to pen­sa­va, di cer­to, che fos­si venu­to in taxi, e che ogni gior­no pasteg­gias­si, come Cavour, al risto­ran­te del Cam­bio di Torino.

Mi fece una sola doman­da: «Cosa pen­sa del­la poli­ti­ca dei cen­to fio­ri di Zhou En Lai?» (lo pro­nun­ciò alla cine­se, non all’eu­ro­pea, Ciu En Lai). Come let­to­re appas­sio­na­to di poli­ti­ca este­ra, par­lai sen­za esse­re mai inter­rot­to per mez­z’o­ra. Annuì com­pia­ciu­to, non mi fece altre doman­de, si com­pli­men­tò, mi pre­an­nun­ciò una let­te­ra di assun­zio­ne, non più come ope­ra­io, ma come impie­ga­to tec­ni­co di 2° cate­go­ria a 68.000 lire al mese (gli ave­vo det­to che in Fiat ne gua­da­gna­vo 33.000).
Sul tre­no, men­tre tor­na­vo a Tori­no, come avrei fat­to sem­pre duran­te tut­ta la mia vita pro­fes­sio­na­le di fron­te a sno­di impor­tan­ti, pre­si una deci­sio­ne, imme­dia­ta e defi­ni­ti­va, basa­ta esclu­si­va­men­te su sen­sa­zio­ni: non avrei accet­ta­to la son­tuo­sa pro­po­sta, ave­vo ven­t’an­ni, la vita davan­ti, sarei rima­sto ope­ra­io nel­la Fiat di mio non­no, dei miei geni­to­ri, qual­co­sa sareb­be suc­ces­so. Nel­la pro­po­sta c’e­ra un che di inna­tu­ra­le, di intel­let­tual­men­te vol­ga­re, la rimos­si, non ci pen­sai più. La sera, con i quat­tri­ni di Tufa­rel­li, con la mam­ma andam­mo a cena fuo­ri, non sape­vo il per­ché, ma ero feli­ce di aver det­to no alla pro­po­sta che «non si pote­va rifiutare».

Capii anni dopo che l’O­li­vet­ti di Adria­no, pie­na di socio­lo­gi, di urba­ni­sti, di let­te­ra­ti, di archi­tet­ti, che curio­sa­men­te si occu­pa­va­no di mec­ca­ni­ca non avreb­be mai potu­to esse­re il mio mon­do. Allo­ra, non sape­vo che quin­di­ci anni dopo in Fiat mi sarei occu­pa­to di orga­niz­za­zio­ne azien­da­le, avrei stu­dia­to a fon­do il caso Oli­vet­ti, mi sarei con­vin­to che con una gestio­ne di tal fat­ta l’O­li­vet­ti non pote­va non fal­li­re. Cer­to all’ap­pa­ren­za era un’a­zien­da metal­mec­ca­ni­ca di mac­chi­ne da scri­ve­re, ma Adria­no la tra­sfor­mò in uno «spa­zio» mul­ti­cul­tu­ra­le e cosmo­po­li­ta (secon­do me anche erma­fro­di­ta), in una fuci­na di talen­ti, che lui stes­so e il capo del per­so­na­le assu­me­va­no e face­va­no cre­sce­re, indi­pen­den­te­men­te dal­le esi­gen­ze del­l’a­zien­da. Fu l’in­ven­to­re del­la pan­chi­na mana­ge­ria­le lun­ga, scel­ta che si rive­le­rà sui­ci­da, per­ché il busi­ness e il mana­ge­ment sono con­ce­pi­ti per rispon­de­re agli azio­ni­sti, non a un pre­si­den­te-mece­na­te che ripia­na le per­di­te del­la squa­dra del cuore.

Col sen­no di poi, tut­ti con­ven­ne­ro che fu la scia­gu­ra­ta, come intui­zio­ne e come moda­li­tà rea­liz­za­ti­va, acqui­si­zio­ne negli Sta­ti Uni­ti di Under­wood ad avvia­re l’O­li­vet­ti ver­so il fal­li­men­to. Era cer­ta­men­te vero dal pun­to di vista del­l’­hard­ware, ma impor­tan­te fu anche il con­tri­bu­to con­se­guen­te all’ec­ces­so di soft­ware che que­sta poli­ti­ca, sen­za rite­gno, di acqui­si­zio­ne di intel­li­gen­ze com­por­tò sul con­to eco­no­mi­co e sul­lo sta­to patri­mo­nia­le. E soprat­tut­to sul­le moda­li­tà di fun­zio­na­men­to, con le natu­ra­li, con­se­guen­ti lot­te inte­sti­ne che ne segui­ro­no, dila­nian­do­la. Trop­pi indi­vi­dui intel­li­gen­ti e col­ti, che di nor­ma lavo­ra­no poco e chiac­chie­ra­no mol­to, di natu­ra ris­so­si, con­cen­tra­ti in pic­co­li spa­zi, crea­no caos, distur­ba­no chi lavora.
Quan­do un’a­zien­da metal­mec­ca­ni­ca sce­glie di ave­re come dire­zio­ne gui­da, non quel­la tec­ni­ca o quel­la com­mer­cia­le, ma quel­la del per­so­na­le, e vi met­te a capo, in suc­ces­sio­ne, per­so­nag­gi cer­to di straor­di­na­ria cul­tu­ra, come Ber­la, Tufa­rel­li, Vol­po­ni, Luna­ti (a pri­ma vista pare una quar­ti­na del Cam­piel­lo) signi­fi­ca che ha una visio­ne del mana­ge­ment, di cer­to roman­ti­ca, ma suicida.

Ven­t’an­ni dopo Tufa­rel­li ver­rà in Fiat come ammi­ni­stra­to­re dele­ga­to del­l’Au­to, le nostre stra­de si rin­con­tra­ro­no. Seguen­do l’i­deo­lo­gia postses­san­tot­ti­na allo­ra in voga, con­ce­pì il pro­dot­to auto­mo­bi­le come un puro mez­zo di loco­mo­zio­ne, che dove­va costa­re poco, ed esse­re alla por­ta­ta di tut­ti; il tra­spor­to vero l’a­vreb­be fat­to la mano pub­bli­ca. Una fol­lia. Le auto Fiat del­la sua gestio­ne furo­no ano­ni­me, tri­sti, alcu­ne da rea­li­smo sovie­ti­co, era­no poli­ti­ca­men­te cor­ret­te, ma non si ven­de­va­no. Tufa­rel­li fu un disa­stro, for­tu­na­ta­men­te arri­vò Car­lo De Bene­det­ti, nei suoi cen­to gior­ni in Fiat die­de inca­ri­co a un gio­va­nis­si­mo Giu­gia­ro e ai tec­ni­ci inter­ni di fare un’au­to nuo­va: sarà la Pan­da, c’è tuttora.

L’in­se­gna­men­to del caso Oli­vet­ti? Un impren­di­to­re vero gesti­sce l’a­zien­da secon­do le rego­le del mer­ca­to, del busi­ness, del mana­ge­ment, con­sun­ti­va i pro­fit­ti, li distri­bui­sce agli azio­ni­sti, che sono libe­ri, dopo, solo dopo di spen­der­li come voglio­no, anche man­te­ne­re, in club a par­te, dei per­di­gior­no, intel­let­tua­li, arti­sti, poli­ti­ci o cal­cia­to­ri che sia­no. Guai però a mischia­re i due pia­ni, come si dice­va allo­ra in offi­ci­na: «as fa nen parej».