di Giorgio La Malfa
Alla fine degli anni cinquanta la Olivetti poteva essere considerata come una delle imprese
simbolo del miracolo economico italiano. Aveva alle spalle oltre un decennio di crescita
ininterrotta del fatturato, delle esportazioni e dell’occupazione. Aveva risultati di bilancio
estremamente positivi. Il successo si basava sia sulle macchine da scrivere, che erano state il
suo prodotto principale dall’inizio della sua attività nel 1908, sia sulle macchine calcolatrici che
aveva cominciato a produrre in piccoli numeri già prima della guerra, ma erano diventate, a
partire dal 1948, quando era stata immessa sul mercato la Divisumma, uno dei grandi fattori di
successo della società, con margini di profitto ben superiori a quelli delle macchine da scrivere.
E tuttavia appartenevano agli stessi anni ’50, così positivi dal punto di vista delle vendite
e dei profitti, due decisioni dalle quali scaturì in definitiva la crisi dell’azienda — decisioni
per molti aspetti lungimiranti ma che avrebbero richiesto per essere condotte a buon fine una
ben più significativa consistenza patrimoniale della società ed una disponibilità e possibilità
dell’azionariato di rispondere alle esigenze di capitalizzazione derivanti da queste decisioni. La
prima in ordine di tempo di queste decisioni era stato l’ingresso nel settore elettronico avvenuto
con l’apertura nel 1951 di un laboratorio di ricerca negli Stati Uniti e seguito, a metà degli anni
’50, dalla decisione di avviare la produzione di calcolatori. Il primo di questi grandi calcolatori,
l’Elea 9003, fu completato nel 1958, in anticipo rispetto alla IBM. Ma i costi di ricerca e quelli
di produzione erano elevatissimi: avrebbero richiesto una forza finanziaria imponente per le
dimensioni dell’azionariato della Olivetti di quegli anni.
La seconda decisione è l’acquisto della società americana Underwood deciso e portato a termine
molto rapidamente fra il 1958 e il 1959. Anche in questo caso si trattò di una decisione che aveva
una solida giustificazione strategica. Si trattava per la Olivetti di penetrare nel mercato americano
delle macchine da scrivere e, ancor più, delle macchine calcolatrici, per il quale obiettivo era
indispensabile disporre di un marchio americano e di una base in seno agli Stati Uniti. E tuttavia
il valore di mercato della Underwood fu grossolanamente sopravvalutato, né la Olivetti si rese
inizialmente conto della mole di investimenti che sarebbero stati richiesti per la ristrutturazione
degli impianti largamente obsoleti dell’azienda. Il gruppo dirigente della Olivetti si divise nella
valutazione dell’acquisizione, ma Adriano fu inflessibile nella decisione di procedere, anche se,
nel corso del 1959, riconobbe che le condizioni della società che avevano acquisito erano molto
peggiori di quanto egli stesso non avesse valutato. Una volta fatto l’acquisto, per cercare di
rimettere in sesto l’Underwood la Olivetti avrebbe speso in pochi anni oltre 100 miliardi di lire
dell’epoca.
Questi due investimenti, quello nell’elettronica e quella per l’acquisto della Underwood,
e soprattutto la coincidenza temporale fra i fabbisogni finanziari connessi ai due programmi,
resero immediatamente evidente l’insufficienza del capitale azionario della Olivetti e quindi la
necessità di un suo rapido adeguamento. Questa esigenza si scontrava con la grande dispersione
dell’azionariato nel nucleo familiare della famiglia e degli eredi Olivetti e con il problema, che
del resto fu comune a buona parte del capitalismo familiare italiano del secondo dopoguerra,
costituito dal fatto che un collocamento del capitale nel mercato, che in astratto era concepibile
data l’alta redditività della società in quel periodo, avrebbe condotto a una sostanziale diluizione
del controllo da parte del vecchio nucleo degli azionisti. Nel caso della Olivetti il problema fu
ulteriormente complicato dal fatto che Adriano, che negli anni Trenta aveva affiancato il padre
Camillo nella gestione della Olivetti dimostrando una notevole capacità di espandere l’attività
dell’azienda ed era alla guida dell’azienda negli anni del suo maggiore successo nel dopoguerra,
disponeva però di un pacchetto azionario piuttosto contenuto — dell’ordine del 10 per cento del
capitale della società — mentre altri membri della famiglia Olivetti con pacchetti azionari più o
meno equivalenti, avevano da sempre molte riserve sulla sua conduzione. Dunque un azionariato
frazionato, non particolarmente solido patrimonialmente e diviso strategicamente.
All’inizio del 1960, per ovviare alla debolezza della base di capitale, ma cercando di non
ridurre il controllo sulla società da parte del nucleo familiare, peraltro, come si è appena detto,
profondamente diviso al suo interno, la Olivetti decise l’emissione di un consistente volume di
azioni privilegiate (quindi con diritto di voto solo nelle assemblee straordinarie) e la quotazione
in borsa della società. Mentre l’operazione era ormai definita ed in fase di lancio, il 27 febbraio
1960, Adriano Olivetti scomparve improvvisamente. Furono nominati presidente Giuseppe Pero,
uno degli alti dirigenti della società, e amministratore delegato Roberto Olivetti, fino ad allora
responsabile della parte elettronica dell’azienda. Persistettero e si accentuarono le difficoltà nei
rapporti familiari e nell’azionariato.
Nel corso del 1963, la situazione precipita. Diventa evidente che con le sue sole forze la
società non è in grado di fronteggiare la crisi. Roberto Olivetti convince i familiari ad affidare la
ricerca di soluzioni dei problemi della società a Bruno Visentini, allora viceprediente dell’IRI.
Raffaele Mattioli, amministratore delegato della Comit, suggerisce a Visentini e a Olivetti di
affidare alla Mediobanca di Enrico Cuccia lo studio dettagliato della situazione e delle possibili
soluzioni. Mediobanca ha già avuto vari rapporti con la Olivetti. Vi sono stati dei prestiti andati a
buon fine e vi è stata la quotazione di borsa e l’emissione di azioni privilegiate del 1960 anch’esse
andate a buon fine. Ma, accingendosi ad esaminare a fondo la situazione, Mediobanca decide di
procedere a un accertamento scrupoloso delle condizioni della Olivetti.
Come è ben spiegato nel saggio di Giampietro Morreale, nell’archivio di Mediobanca vi sono
vari nuclei di documenti relativi alla vicenda Olivetti; il complesso più ricco è quello conservato
tra le carte di Vincenzo Maranghi, che prese parte a tutti i colloqui e verbalizzò le riunioni quando
era ancora un giovane impiegato della segreteria di Enrico Cuccia. Conscio della loro importanza,
Maranghi conservò integralmente sia quei verbali sia tutta la documentazione relativa al Gruppo
di intervento per l’Olivetti il quale, oltre a Mediobanca, comprese la Fiat, l’IMI, la Pirelli e La
Centrale.
Si è ritenuto che possa essere interessante pubblicare in primo luogo i verbali nella loro
integrità, come strumenti sia di conoscenza dettagliata della vicenda Olivetti, sia come evidenza
del modus operandi di Mediobanca in questo che fu il primo dei numerosi interventi per la
sistemazione dei problemi dei grandi gruppi industriali italiani che ne hanno punteggiato la storia.
Di particolare interesse il confronto con i manager della multinazionale statunitense General
Electric, che rilevò allora le attività della Olivetti nel settore della “grande” elettronica.
i verbali redatti da Vincenzo Maranghi è stato aggiunto anche il più breve testo integrale
della contemporanea relazione di un altro funzionario di Mediobanca, Tiziano Pezzali, che era
stato incaricato di valutare la posizione finanziaria e industriale della Olivetti per decidere l’entità
dell’intervento necessario al suo salvataggio e che erano conservati tra le carte dell’Amministratore
delegato Enrico Cuccia.