OLIVETTI, addio — Un sogno premonitore

addio olivetti

Entra­to in Oli­vet­ti nel 1956, Caglie­ris bru­ciò let­te­ral­men­te le tap­pe, assu­men­do inca­ri­chi via via più pre­sti­gio­si e otte­nen­do la nomi­na a diri­gen­te nel 1963. La sua pro­fon­da uma­ni­tà e la pre­pa­ra­zio­ne pro­fes­sio­na­le lo por­ta­ro­no ad assu­me­re inca­ri­chi di pri­mis­si­mo pia­no, fino a quel­la man­sio­ne di respon­sa­bi­le del­le rela­zio­ni mana­ge­ria­li, crea­ta appo­si­ta­men­te per lui. E giun­se il fati­di­co 1990, anno del­le dimissioni.
Ma la pen­sio­ne non signi­fi­cò allon­ta­nar­si dall’azienda e dai suoi uffi­ci: nel 1994 fu nomi­na­to pre­si­den­te del­le Spil­le d’oro ed era anche con­si­glie­re del­la Fon­da­zio­ne Adria­no Oli­vet­ti e dell’Archivio Sto­ri­co Oli­vet­ti. L’azienda come una casa, come una fami­glia, vis­su­ta dai fasti di Adria­no al cre­pu­sco­lo debe­ne­det­tia­no, ma sem­pre con una fede incrol­la­bi­le nei valo­ri del­la “oli­vet­tia­ni­tà”.
Nel cor­so del Car­ne­va­le 2002 fu nomi­na­to Odi­to­re, enne­si­mo tri­bu­to a una per­so­na che oggi lascia un vuo­to incol­ma­bi­le fra colo­ro che lo han­no apprez­za­to e in que­gli ambien­ti ai qua­li ave­va dato un’impronta.
Ripo­se le for­bi­ci nel­la custo­dia, pulì accu­ra­ta­men­te le scar­pe, stro­fi­nan­do­le sul tap­pe­to del­la gran­de por­ta a vetri e si mos­se ver­so uno dei tre ascen­so­ri, che l’u­scie­re gli ave-va cor­te­se­men­te chiamato.
Ricor­dò che anche i sor­ve­glian­ti del­la Gran­de Azien­da era­no soli­ti chia­mar­gli l’ascensore.

Gra­zie, signor Favre” dis­se all’u­scie­re, che era di Champoluc.

Gli ascen­so­ri era­no bian­chi, come le pare­ti di pla­sti­ca che ave­va­no coper­to il rive­sti­men­to di legno, come tut­ti i cor­ri­doi, gli arma­di, le scri­va­nie, i tavo­li e le sedie: una esplo­sio­ne di bian­co, che ave­va sosti­tui­to i toni ver­di e mar­ro­ni del vec­chio Palaz­zo e che, secon­do lui, era mol­to meno adat­to a cal­ma­re le ansie ossessive.
Salì al sesto pia­no, per­cor­se il cor­ri­do­io fino in fon­do ed entrò nel­lo stu­dio del diret­to­re sani­ta­rio, che si chia­ma­va Beck Pec­coz ed era di Gressoney.
Que­sti occu­pa­va l’uf­fi­cio che già era sta­to del­l’in­ge­gner Car­lo De Benedetti.
“Si acco­mo­di”, disse.
Era un uomo di modi mol­to sbri­ga­ti­vi. Affron­tò subi­to il tema.
“Sono sta­to pre­ga­to di chie­der­le di rice­ve­re un gior­na­li­sta che sta svol­gen­do una inchie­sta sul­le tra­sfor­ma­zio­ni dei gran­di com­ples­si industriali.

E sta­to sti­ma­to che nel­la nostra zona si è veri­fi­ca­to un cam­bia­men­to così radi­ca­le da meri­ta­re una inda­gi­ne spe­ci­fi­ca e approfondita.
Lei dovreb­be con­sen­ti­re di esse­re inter­vi­sta­to. Si è pen­sa­to a lei per la sua lun­ga per­ma­nen­za nel­la Gran­de Azien­da, nel­la qua­le ha svol­to inca­ri­chi che han­no costi­tui­to dei pun­ti di osser­va­zio­ne par­ti­co­la­ri e qua­si unici.
Come medi­co, repu­to che l’i­ni­zia­ti­va potreb­be gio­var­le. Ricor­da­re, par­la­re, con­fes­sa­re potreb­be aiu­tar­la a supe­ra­re il bloc­co nel qua­le si è chiu­so, a ritro­va­re una spie­ga­zio­ne del­le cose che sono avve­nu­te e un signi­fi­ca­to alle cose che ha fatto”.
Trat­ten­ne a sten­to un moto di irri­ta­zio­ne. Non ave­va mai potu­to sop­por­ta­re i gior­na­li­sti. Ecco ora il gior­na­li­sta tera­peu­ta, l’ul­ti­mo dia­bo­li­co espe­dien­te di que­sta cate­go­ria che, sal­vo poche ecce­zio­ni, ave­va sacri­fi­ca­to le rego­le del­la deon­to­lo­gia pro­fes­sio­na­le alle ambi­zio­ni per­so­na­li, alle com­pro­mis­sio­ni poli­ti­che e agli inte­res­si economici.
Tut­ta­via pen­sò che non pote­va man­ca­re di riguar­do alla dire­zio­ne sani­ta­ria e acconsentì.

L’in­con­tro è sta­to fis­sa­to per doma­ni alle ore die­ci”, dis­se il medi­co, che evi­den­te­men­te era sicu­ro del­la sua accettazione.

Non sce­se a pran­zo. Rima­se chiu­so nel­la sua stan­za a pre­pa­ra­re la stra­te­gia dell’incontro.
Pen­sò che avreb­be potu­to cavar­se­la con­se­gnan­do alcu­ni appun­ti scrit­ti, qual­che docu­men­to inter­no, la copia di qual­che cir­co­la­re orga­niz­za­ti­va, mate­ria­le che ave­va por­ta-to con sé, sot­traen­do­lo alla bra­mo­sia del cura­to­re del­l’Ar­chi­vio Sto­ri­co Azien­da­le, pro­fes­sor Maggia.
Pas­sò alcu­ne ore a met­te­re in ordi­ne le car­te e così facen­do si acquietò.

Cenò con una taz­za di the e due biscot­ti, les­se alcu­ne pagi­ne del “De Tran­quil­li­ta­te Ani­mi” di Sene­ca che tene­va sul tavo­lo e si addor­men­tò, sicu­ro di aver aggi­ra­to il problema.
Alle die­ci in pun­to il gior­na­li­sta bus­sò alla por­ta ed entrò.

Lo guar­dò con diffidenza.

Era anco­ra un ragaz­zo, ven­ti­cin­que anni al mas­si­mo, qua­si cer­ta­men­te al suo pri­mo lavo­ro impor­tan­te. Vesti­va sobria­men­te all’in­gle­se, con la cra­vat­ta e il faz­zo­let­to nel taschi­no del­lo stes­so colo­re, era ben pet­ti­na­to e si muo­ve­va in manie­ra edu­ca­ta. Il viso, un po’ tira­to, ave­va una espres­sio­ne mite e gli occhi era­no intel­li­gen­ti, anche se un po’ spauriti.
Di col­po gli ricor­dò il tipo di quei mol­ti neo-lau­rea­ti che ave­va esa­mi­na­to nel­la sua lun­ga vita azien­da­le, anch’es­si pie­ni di pau­ra e di speranza.
Comin­ciò a far­gli del­le doman­de: dove era nato, come era com­po­sta la sua fami­glia, dove si era lau­rea­to, il tito­lo e il con­te­nu­to del­la tesi, la vota­zio­ne, qua­li ambien­ti fre­quen­ta­va, qua­li inte­res­si ave­va, qua­li libri leg­ge­va, cosa pen­sa­va dei films pre­sen­ta­ti all’ul­ti­mo Festi­val di Vene­zia, qua­li espe­rien­ze lavo­ra­ti­ve ave­va avuto.
Sen­za accor­ger­se­ne, ave­va tra­sfor­ma­to quel­l’in­con­tro in un col­lo­quio di sele­zio­ne ed ave­va inver­ti­to i ruo­li, diven­tan­do lui l’intervistatore.
Le doman­de si snoc­cio­la­va­no con meto­do e le rispo­ste era­no chia­re e motivate.
A mano a mano che il col­lo­quio pro­ce­de­va, sen­ti­va sem­pre mag­gior inte­res­se per quel gio­va­ne e la dif­fi­den­za ini­zia­le si scio­glie­va in una for­ma incon­scia di simpatia.
A mez­zo­gior­no dis­se: “La invi­to a pranzo”.
Anda­ro­no al Ramo Ver­de di Pavo­ne, a pochi chi­lo­me­tri dal Palaz­zo. Lì ordi­nò piat­ti loca­li e di ognu­no di essi de-scris­se le carat­te­ri­sti­che. Fini­ro­no con un bic­chie­re di grap­pa distil­la­ta dal­le vinac­ce del Carema.
Avver­ti­va un leg­ge­ro sen­so di bea­ti­tu­di­ne. Gli sem­bra­va di esse­re tor­na­to indie­tro di mol­ti anni.

Ora può comin­cia­re l’in­ter­vi­sta”, disse.

Anche il gior­na­li­sta avver­ti­va quel­l’at­mo­sfe­ra diste­sa, si sen­ti­va a sua vol­ta a suo agio e con tono gar­ba­ta­men­te pro­vo­ca­to­rio pose la pri­ma domanda.
“Se per­met­te, comin­ce­rei dal fon­do. Che ne à sta­to dei Protagonisti?”.

Car­lo De Bene­det­ti ha lascia­to l’I­ta­lia” rispo­se “ed ha costi­tui­to a Gine­vra una socie­tà finan­zia­ria inter­na­zio­na­le che ope­ra nel cam­po del­le gran­di nego­zia­zio­ni e accor­di industriali.

Vit­to­rio Cas­so­ni è tor­na­to alla IBM ed è respon­sa­bi­le del­le rela­zio­ni esterne.

Fran­co De Bene­det­ti ha fon­da­to una pic­co­la casa edi­tri­ce, spe­cia­liz­za­ta in pub­bli­ca­zio­ni arti­sti­che e stam­pa libri di pregio.

Else­ri­no Piol ha acqui­sta­to una fat­to­ria in Marem­ma e pas­sa lun­ghe ore alla fine­stra a guar­da­re i caval­li che galop­pa­no avan­ti e indie­tro sul­la linea dell’orizzonte.

Etto­re Morez­zi è il segre­ta­rio del Secon­do Par­ti­to Cat­to­li­co Italiano.

Gior­gio Panat­to­ni è par­ti­to per la Rus­sia e non è più tor­na­to. Pare che diri­ga la Fab­bri­ca di San Pietroburgo.

Vit­to­rio Levi, dopo una espe­rien­za nei tes­su­ti, è a Mara­nel­lo e fa il diret­to­re gene­ra­le del­la Ferrari.

Fran­co Tatò ha lascia­to la Mon­da­do­ri per dis­sen­si con Ber­lu­sco­ni ed è sta­to nomi­na­to dal Gover­no Tede­sco Com­mis­sa­rio per la ristrut­tu­ra­zio­ne del baci­no indu­stria­le del­l’Al­ta Sassonia.

Mas­si­mo Sama­ja è Pre­si­den­te del Cre­di­to Ampezzano.

Pao­lo Man­ci­nel­li è Con­si­glie­re Eme­ri­to del­la Far­ne­si­na a Roma. Di tan­to in tan­to con­ce­de qual­che con­su­len­za ami­che­vo­le all’Ar­chi­vio di Sta­to, pres­so il qua­le è riu­sci­to a col­lo­ca­re il pro­fes­sor Maggia.

Ange­lo For­na­sa­ri è part­ner di una socie­tà di con­su­len­za orga­niz­za­ti­va e ammi­ni­stra­ti­va a Mila­no ed ha tra­sfe­ri­to la fami­glia a Parma.

Danie­le Mosca inve­ce con­ti­nua ad abi­ta­re a Ivrea ed è sta­to nomi­na­to Gover­na­to­re del­la Sub­pro­vin­cia Cana­ve­sa­na, dopo l’an­nes­sio­ne del­la stes­sa alla Regio­ne Auto­no­ma del­la Val­le d’Ao­sta, in base ad una nor­ma del rego­la­men­to che pre­ve­de per quel­la posi­zio­ne un resi­den­te nato entro i vec­chi con­fi­ni del­la Valle.

Io, come vede, sono qui, impaz­zi­to per quel­lo che è suc­ces­so e per il dub­bio di non aver fat­to tut­to ciò che pote­vo e dove­vo fare.
Sono trat­ta­to con mol­to riguar­do. Per esem­pio, la stan­za che occu­po al secon­do pia­no del Palaz­zo, e nel­la qua­le ci sia­mo incon­tra­ti, coin­ci­de con l’uf­fi­cio che ho tenu­to per oltre die­ci anni e che, pri­ma di me, era occu­pa­to dal dot­tor Luna­ti. L’ar­re­da­men­to è cam­bia­to: c’è un let­to e quei mobi­li Syn­the­sis bel­li e cal­di sono sta­ti sosti­tui­ti da arma­di e tavo­li di colo­re bian­co che, come avrà nota­to, sono ano­ni­mi e un po’ fred­di. Del pre­ce­den­te ambien­te mi sono rima­sti una pian­ta Benia­mi­no e il ritrat­to del­l’in­ge­gner Adria­no, appe­so alla pare­te. Pri­ma di scen­de­re al secon­do pia­no nel 1980, ho occu­pa­to, nel perio­do nel qua­le fui diret­to­re ammi­ni­stra­ti­vo del­la Gran­de Azien­da, un uffi­cio al quar­to pia­no, che poi ho cedu­to al mio suc­ces­so­re dot­tor Fornasari.
Oggi nel Palaz­zo tut­ti i cor­ri­doi han­no un nome, come le stra­de di una cit­tà. La zona già da me occu­pa­ta al quar­to pia­no è sta­ta chia­ma­ta Lar­go Caglie­ris e il cor­ri­do­io che vi acce­de è inti­to­la­to al dot­tor Camil­lo Prel­le che fu il mio supe­rio­re fino a che non lo sostituii.
Io mi tro­vo mol­to bene nel­la Clinica.
Qual­cu­no le dirà che simu­lo la fol­lia per non lascia­re il Palaz­zo che ho tan­to ama­to, ma non gli cre­da. Le garan­ti­sco che sono vera­men­te pazzo.
Nel mio repar­to sono cura­te le for­me leggere.
I  mat­ti peri­co­lo­si e cri­mi­na­li sono allog­gia­ti nel­l’e­di­fi­cio vici­no, l’ex Palaz­zo Uffi­ci Due, il qua­le, a cau­sa del­la sua strut­tu­ra, sem­brò sin dal­l’i­ni­zio, più che un ambien­te di lavo­ro, un qual­che cosa che sta­va tra il car­ce­re e l’ospedale.
Ho mol­ta liber­tà di movimento.
A vol­te sal­go sino al set­ti­mo pia­no e, attra­ver­san­do la sala che un tem­po ospi­ta­va le riu­nio­ni del Comi­ta­to Mana­ge­ria­le, esco a pas­seg­gia­re sul­la ter­raz­za, dal­la qua­le si ha la vista pano­ra­mi­ca del com­ples­so immo­bi­lia­re già del­la Gran­de Azien­da e oggi tra­sfor­ma­to dal­la Ammi­ni­stra­zio­ne del­la Regio­ne nel gran­dio­so Cen­tro Inter­na­zio­na­le per la Cura del­le Nevrosi.
Sot­to i miei pie­di, nel­l’ex Palaz­zo Uffi­ci Uno, la Cli­ni­ca per i Para­noi­ci; accan­to, nel­l’ex Palaz­zo Uffi­ci Due, il Mani­co­mio Cri­mi­na­le; più avan­ti lun­go la via Jer­vis, nel­la ex Nuo­va Ico, il Repar­to Schi­zo­fre­ni­ci; suc­ces­si­va­men­te, nel­la ex Vec­chia Ico, il Repar­to Idio­ti e die­tro ad esso, nel­la ex Men­sa Ico, la Cli­ni­ca Pedia­tri­ca. L’ex Edi­fi­cio dei Ser­vi­zi Socia­li fun­ge da rice­zio­ne per l’ac­co­gli­men­to e lo smi­sta-men­to degli amma­la­ti, men­tre nel­la Fab­bri­ca di Mat­to­ni Ros­si è sta­ta siste­ma­ta una impor­tan­te biblio­te­ca scien­ti­fi­ca con docu­men­ti e fil­mi­ne sul­le diver­se for­me di tur­be psichiche.
Il con­ven­to e la Chie­sa di S. Ber­nar­di­no, con gli affre­schi del­lo Span­zot­ti, sono rima­sti sot­to la tute­la del­la Sovrin­ten­den­za alle Bel­le Arti, e ven­go­no aper­ti alla fre­quen­ta­zio­ne dei paren­ti degli amma­la­ti duran­te le ore nel­le qua­li non sono con­sen­ti­te le visi­te negli ospedali”.

Par­lia­mo anco­ra di lei. Quan­do lasciò la Gran­de Azienda?”.

Il 30 apri­le del­l’an­no 1991, alla sca­den­za tec­ni­ca del pre­av­vi­so per le dimis­sio­ni che ave­vo dato il 14 novem­bre 1990. Quel­la mat­ti­na, dal­le ore die­ci e tren­ta alle ore tre­di­ci, l’in­ge­gner Car­lo De Bene­det­ti e l’in­ge­gner Cas­so­ni illu­stra­ro­no al Comi­ta­to Mana­ge­ria­le il pia­no di ristrut­tu­ra­zio­ne (già comu­ni­ca­to nei gior­ni pre­ce­den­ti al Pre­si­den­te del Con­si­glio, ad alcu­ni Mini­stri e ai ver­ti­ci del Sin­da­ca­to) con il qua­le l’A­zien­da si pro­po­ne­va di supe­ra­re le dif­fi­col­tà in-dot­te dal­la cri­si del set­to­re dell’informatica.

Il pia­no pre­ve­de­va l’al­lon­ta­na­men­to di set­te­mi­la per­so­ne, di cui quat­tro­mi­la in Ita­lia, con­cen­tra­te soprat­tut­to nel Canavese.
Alle ore quat­tor­di­ci e tren­ta scris­si una let­te­ra allo stes­so inge­gner De Bene­det­ti e all’in­ge­gner Cas­so­ni, e per cono­scen­za al Diret­to­re del Per­so­na­le Mas­si­mo Sama­ja, con la qua­le comu­ni­ca­vo le mie dimis­sio­ni dal­la Socie­tà. Desi­de­ra­vo esse­re il pri­mo dei set­te­mi­la a lascia­re l’A­zien­da e per ini­zia­ti­va personale.

L’in­ge­gner De Bene­det­ti mi con­vo­cò nel suo uffi­cio e mi dis­se: “Ho rice­vu­to la sua let­te­ra. La rin­gra­zio per la sua sen­si­bi­li­tà. Mi ha tol­to da un gros­so disa­gio”. Rima­si in silen­zio. Un po’ imba­raz­za­to aggiun­se: “Farà un cer­to effet­to non veder­la più nel Palaz­zo”. Poi si alzò e, dan­do­mi la mano, ripeté:

Anco­ra grazie”.