Olivetti Marcianise anno zero — La cena con i piemontesi

 

Foto non riferita alla serata, la cena è dei dirigenti della Olivetti Marcianise anno 1975

Foto non rife­ri­ta alla sera­ta, la cena è dei diri­gen­ti del­la Oli­vet­ti Mar­cia­ni­se anno 1975

di Giu­sep­pe Beltrani

E rac­con­tia­mo come si svi­lup­pò que­sta cena.
Ma pri­ma, imma­gi­no che sia uti­le descri­ve­re, anche se in modo sin­te­ti­co, il gran­de pro­get­to che la Oli­vet­ti sta­va svi­lup­pan­do in que­sto ter­ri­to­rio che, pur­trop­po, oggi fa par­te di quel­la defi­ni­ta “la ter­ra dei fuochi”.
Era il 1969 e da anni esi­ste­va la ipo­te­si di costrui­re un’altra fab­bri­ca al sud, in Cam­pa­nia. Io stes­so ed altri sei col­le­ghi era­va­mo sta­ti assun­ti, nel 1963, dal­la Oli­vet­ti di Poz­zuo­li pro­prio con l’obiettivo di rin­for­za­re il grup­po di tec­ni­ci da cui attin­ge­re per le esi­gen­ze del­la nuo­va real­tà. La pro­vin­cia cam­pa­na più get­to­na­ta, ini­zial­men­te, era quel­la saler­ni­ta­na, poi, sem­bra­va che il pro­get­to fos­se sal­ta­to e, quan­do, dopo diver­si anni, fu ripre­so la scel­ta era cadu­ta su Mar­cia­ni­se, cit­ta­di­na in pro­vin­cia di Caserta.
Lo sta­bi­li­men­to di Poz­zuo­li, svi­lup­pa­to mol­ti anni pri­ma, nel 1951, ave­va regi­stra­to un gros­so successo.
Le mae­stran­ze, pur essen­do rac­col­te in un tes­su­to socia­le poco o per nien­te indu­stria­liz­za­to, ave­va rag­giun­to rapi­da­men­te gli obiet­ti­vi di pro­dut­ti­vi­tà e pro­fes­sio­na­li­tà neces­sa­ri per le tec­no­lo­gie, mol­to spin­te, utilizzate.
Que­sti risul­ta­ti, pro­ba­bil­men­te, ave­va­no con­for­ta­to la scel­ta dei pro­dot­ti da tra­sfe­ri­re nel­la fab­bri­ca di Mar­cia­ni­se: le mac­chi­ne contabili.
Era­no il pro­dot­to più com­ples­so del­la Oli­vet­ti di que­gli anni. In essa era­no inte­gra­te sia le fun­zio­ni di mac­chi­na da scri­ve­re che quel­le di mac­chi­ne da cal­co­lo. Desti­na­te soprat­tut­to alle ban­che, rap­pre­sen­ta­va­no una impor­tan­te fet­ta del fat­tu­ra­to azien­da­le di allora.
A Ivrea era­no pro­dot­te nel­la fab­bri­ca di San Ber­nar­do e, sia i tec­ni­ci di pro­dot­to, sia gli ope­rai, era­no sta­ti sele­zio­na­ti, fior da fio­re, tra le mae­stran­ze nume­ro­sis­si­me occu­pa­te negli sta­bi­li­men­ti canavesani.
Gli inte­res­sa­ti ave­va­no un inqua­dra­men­to cate­go­ria­le supe­rio­re alla media. Era­no e si sen­ti­va­no una elite.
Pote­va­no mai dei “diser­to­ri del­la van­ga” di que­sta Cam­pa­nia Felix ere­di­ta­re da loro il know how necessario?
Non pote­va­no cre­der­ci, non vole­va­no cre­der­ci. Gli dole­va, oltre­tut­to, per­de­re quel pri­vi­le­gio di esse­re nel­la loro patria i pri­mi del­la classe.
Essi igno­ra­va­no che già ver­so la fine del 1700, in quel­le zone, in par­ti­co­la­re a San Leu­cio, il re Car­lo di Bor­bo­ne ave­va spe­ri­men­ta­to con suc­ces­so, con l’aiuto di impre­se tori­ne­si e del nord Ita­lia, l’avviamento di un’attività mol­to com­ples­sa : la tes­si­tu­ra del­la seta.
Ancor oggi, la seta di San Leu­cio è mol­to rinomata.
Ho volu­to fare que­sta digres­sio­ne per cer­ca­re di far capi­re i moti­vi essen­zia­li che ave­va­no crea­to quel cli­ma di ten­sio­ne tra que­sti due grup­pi : i mae­stri, arri­va­ti da Ivrea, e gli allie­vi del­la Ter­ra laboris.
Ma tor­nia­mo alla nostra cena.
Mari­no era arri­va­to tra i pri­mi. Si sta­va costruen­do un avan­za­men­to di car­rie­ra. E, dopo qual­che tem­po, avreb­be rac­col­to i frut­ti anche per que­ste atti­vi­tà, dicia­mo di public rela­tion, che esu­la­va­no dai suoi compiti.
Anch’io sarei volu­to giun­ge­re in anti­ci­po, ma, a quei tem­pi, ero fidan­za­to con una del­le impie­ga­te che, a tale tito­lo, avreb­be par­te­ci­pa­to alla festa, e, si sa, che le spin­te alle bel­le don­ne, per affret­tar­si nel­le ope­ra­zio­ni di maquil­la­ge, cado­no ine­so­ra­bil­men­te nel vuoto.
E la mia ragaz­za era bel­la, alme­no ai miei occhi, e, sin­ce­ra­men­te avrei gra­di­to che maga­ri un bel col­po di feb­bre l’avesse sot­trat­ta a quel­la sera­ta in mez­zo ai lupi.
Ma, solo ora lo pos­so con­fes­sa­re, a quei tem­pi dicia­mo che dove­vo sof­fri­re in silen­zio. Biso­gna­va esse­re al pas­so coi tem­pi, supe­rio­re a que­ste gelo­sie, insom­ma moderni.
Ed io, non so se con suc­ces­so, cer­cai di appa­ri­re così.
Appe­na giun­ti alla Bom­bo­nie­ra, ci divi­dem­mo e, dopo aver fat­to un giro intrat­te­nen­do­ci, qua­si come dei padro­ni di casa, con vari grup­pet­ti a scam­bia­re qual­che con­ve­ne­vo­le, alla fine ci acco­mo­dam­mo a due tavo­li diver­si, a due tavo­li lon­ta­ni tra loro.
I diri­gen­ti, i capi e gli impie­ga­ti in gene­re, ci era­va­mo distri­bui­ti nei tavo­li assie­me agli ope­rai neo-assunti.
Con i “polen­to­ni” si era sedu­to il napo­le­ta­nis­si­mo Mari­no il qua­le si era tra­sci­na­to, nel vero sen­so del­la paro­la, altri due suoi col­le­ghi del sud.
Ormai sem­bra­va che ci fos­si­mo tut­ti e si pote­va iniziare.
Pie­tro Ric­ciar­di, con la sua elo­quen­za asciut­ta, sen­za reto­ri­ca, con quel­lo sti­le che lascia­va intra­ve­de­re la scuo­la di Adria­no Oli­vet­ti, fece un bre­ve discor­so e, augu­ran­do a tut­ti un buon appe­ti­to, det­te l’avvio alle danze.
E fu un con­cer­to ecce­zio­na­le per i nostri palati.
Si comin­ciò con anti­pa­sti a base di sala­me napo­le­ta­no, moz­za­rel­la di bufa­la, pro­sciut­to pae­sa­no, uli­ve di Gae­ta, frit­tel­le di “pasta cri­sciu­ta”, “ciu­ril­le” e “pan­za­rot­ti”.
Esat­ta­men­te secon­do le tra­di­zio­ni di que­sti luoghi.
In real­tà man­ca­va­no le Rane che, anco­ra, si pesca­va­no nei regi lagni e veni­va­no pre­pa­ra­te, spes­so, frit­te e che io, napo­le­ta­no doc, ave­vo sco­per­to solo dopo aver ini­zia­to que­sta nuo­va espe­rien­za lavorativa.
Cer­to che gli anti­pa­sti pie­mon­te­si, che ave­vo avu­to modo di gusta­re nel­le mie tan­te tra­sfer­te ad Ivrea, era­no mol­to più ric­chi. Le por­ta­te era­no nume­ro­sis­si­me: salu­mi vari, fon­ti­na, toma, tomi­ni fre­schi al ver­de elet­tri­ci, lin­gua in sal­sa ver­de, vitel tonè, Car­ne all’albese con gor­gon­zo­la, cro­sto­ni ai pepe­ro­ni e acciu­ghe, cro­sto­ni al lar­do e casta­gne, acciu­ghe al ver­de, e tan­ti altri ancora.
Quel­li pie­mon­te­si con­si­ste­va­no in tan­tis­si­mi assag­gi­ni; i nostri era­no mol­to meno, però, a mio avvi­so, più corposi.
Di sot­toc­chio osser­va­vo i “nor­di­ci” per vede­re le loro espres­sio­ni e mi ren­de­vo con­to che gra­di­va­no, si gra­di­va­no mol­to e si aiu­ta­va­no sor­seg­gian­do, si fa per dire, quel vinel­lo che, pur non essen­do un Faler­no del Mas­si­co, era un ros­so ben cor­po­so e sicu­ra­men­te non di bas­sa gradazione.
Qual­che anno dopo, sco­prii che era mol­to dif­fu­sa la con­sue­tu­di­ne in quel­li di Mar­cia­ni­se di vini­fi­ca­re nel­le pro­prie case mesco­lan­do uve loca­li ed uve puglie­si, che ne alza­va­no la gra­da­zio­ne. E mi lasciai coin­vol­ge­re in que­sta gio­io­sa usan­za, pro­du­cen­do, invo­lon­ta­ria­men­te, anche mil­le litri di ace­to. Ma que­sta è un’altra storia.
Men­tre era­va­mo in atte­sa di un assag­gio di spa­ghet­to­ni con sof­frit­to, vidi arri­va­re al cen­tro del­la sala, alcu­ni dei nostri bra­vi “diser­to­ri del­la van­ga”, con fisar­mo­ni­ca e chi­tar­re. Ci intrat­ten­ne­ro così bene che, nono­stan­te i nostri gio­va­ni sto­ma­ci affa­ma­ti, l’attesa non ci appar­ve lunga.
Quan­do arri­va­ro­no que­sti pri­mi piat­ti ben abbon­dan­ti, altro che assag­gi, di nuo­vo sbir­ciai i “mae­stri” per vede­re come rea­gi­va­no al pic­can­te, tipi­co di que­sta ricet­ta ma, che for­se su indi­ca­zio­ni di qual­cu­no (chis­sa chi), mi appa­ri­va un po’ ecces­si­va la quan­ti­tà di pepe­ron­ci­no usata.
I pie­mon­te­si si com­por­ta­ro­no da Machos e, sen­za col­po feri­re, fece­ro fuo­ri que­sti spa­ghet­ti “al fuo­co” che spe­gne­va­no tra­gug­gian­do bic­chie­ro­ni di vino.
Dopo il pia­ce­vo­le secon­do inter­val­lo musi­ca­le, tor­na­ro­no i came­rie­ri riem­pen­do i tavo­li con una pie­tan­za leg­ge­ra : Costa­tel­le e sal­sic­ce di maia­le frit­te accom­pa­gna­te da pata­te frit­te e “fria­riel­li”. Un’al­tra bot­ta al fegato!
Poco o nien­te, però, rispet­to alle alle­gre liba­gio­ni che accom­pa­gna­ro­no quest’ultima portata.
Un altro po’ di musi­ca ed arri­vò la gran­de tor­ta. Ades­so il per­so­na­le del­la Bom­bo­nie­ra, che comin­cia­va ad esse­re stan­co, avreb­be gra­di­to che il tut­to si con­clu­des­se velo­ce­men­te, per chiu­de­re e tor­nar­se­ne a casa.
A que­sto pun­to, ci fu un ulti­mo pic­co­lo discor­so, di rico­no­scen­za e di rin­gra­zia­men­to, a quel­li che il gior­no dopo sareb­be­ro ritor­na­ti nel­le neb­bie di Ivrea e dintorni.
Que­sta vol­ta lo ten­ne Mari­no a nome di tut­ti gli ope­rai del nuo­vo com­pren­so­rio indu­stria­le del sud.
E alla fine: champagne!
Non resta­va che scam­biar­ci i salu­ti ed andar via.
Era quel­lo che tut­ti pen­sa­va­mo ma non alcu­ni piemontesi.
Da come par­la­va­no, si capi­va chia­ra­men­te che ave­va­no alza­to il gomi­to. Vole­va­no resta­re là e con­ti­nua­re a bere fino all’alba, dicevano.
Mi avvi­ci­nai a Ric­ciar­di e con­cor­dam­mo che non pote­va­mo lasciar­li là. Dopo­tut­to la pre­no­ta­zio­ne era sta­ta fat­ta a nome dell’azienda. Ma come fare, come con­vin­cer­li o, peg­gio, impor­gli di andar via.
Qui il soli­to Mari­no ci ven­ne in soc­cor­so e, qua­si, si gua­da­gnò i gal­lo­ni sul campo.
Non vi pre­oc­cu­pa­te, ci pen­so io. Fidu­cio­si lo lasciam­mo là.
In veri­tà io mi misi in mac­chi­na, con la mia ragaz­za, e mi appo­stai poco distan­te. Vole­vo esse­re sicu­ro che tut­to si risol­ves­se al meglio. Eppoi, a dire il vero, non mi spia­ce­va affat­to sta­re un po’ appar­ta­to con la mia compagna.
In veri­tà, a sten­to mi accor­si quan­do, di lì a poco, Mari­no uscì a segui­to dei set­te o otto reni­ten­ti ad abban­do­na­re quel risto­ran­te. Eppu­re fece­ro un sac­co di chias­so. Lui che qua­si a spin­ta li cari­ca­va nel­le loro due mac­chi­ne e, sali­to nel­la sua, gli face­va segno di seguirlo.
Mal­vo­len­tie­ri anch’io misi in moto e pre­si la dire­zio­ne ver­so Napo­li, dove sarem­mo ritor­na­ti alle nostre case.
Come avrà fat­to a con­vin­cer­li? Visto che a indi­ca­to a loro di seguir­lo, dove li avrà por­ta­ti? Mi chie­de­vo men­tre, imboc­ca­ta l’autostrada, schiac­cia­vo l’accelleratore.
Il miste­ro lo sco­prii il gior­no dopo.
Lo scu­gniz­zo napo­le­ta­no gli ave­va offer­to di anda­re a don­ne, poi li ave­va por­ta­ti all’autogrill di San Nico­la la Stra­da. Li ave­va fat­ti acco­mo­da­re al bar e ave­va det­to loro che anda­va a tele­fo­na­re. Eppoi? Gli chie­si io.
A quel pun­to – mi rispo­se — l’immagine del­la Oli­vet­ti era sal­va, io ne ave­vo le pal­le pie­ne, li ho mol­la­ti e quat­to quat­to me la sono squagliata.
E così era anda­ta la pri­ma cena azien­da­le del­la nuo­va costi­tuen­da real­tà indu­stria­le Oli­vet­ti di Marcianise.