di Giuseppe Beltrani
E raccontiamo come si sviluppò questa cena.
Ma prima, immagino che sia utile descrivere, anche se in modo sintetico, il grande progetto che la Olivetti stava sviluppando in questo territorio che, purtroppo, oggi fa parte di quella definita “la terra dei fuochi”.
Era il 1969 e da anni esisteva la ipotesi di costruire un’altra fabbrica al sud, in Campania. Io stesso ed altri sei colleghi eravamo stati assunti, nel 1963, dalla Olivetti di Pozzuoli proprio con l’obiettivo di rinforzare il gruppo di tecnici da cui attingere per le esigenze della nuova realtà. La provincia campana più gettonata, inizialmente, era quella salernitana, poi, sembrava che il progetto fosse saltato e, quando, dopo diversi anni, fu ripreso la scelta era caduta su Marcianise, cittadina in provincia di Caserta.
Lo stabilimento di Pozzuoli, sviluppato molti anni prima, nel 1951, aveva registrato un grosso successo.
Le maestranze, pur essendo raccolte in un tessuto sociale poco o per niente industrializzato, aveva raggiunto rapidamente gli obiettivi di produttività e professionalità necessari per le tecnologie, molto spinte, utilizzate.
Questi risultati, probabilmente, avevano confortato la scelta dei prodotti da trasferire nella fabbrica di Marcianise: le macchine contabili.
Erano il prodotto più complesso della Olivetti di quegli anni. In essa erano integrate sia le funzioni di macchina da scrivere che quelle di macchine da calcolo. Destinate soprattutto alle banche, rappresentavano una importante fetta del fatturato aziendale di allora.
A Ivrea erano prodotte nella fabbrica di San Bernardo e, sia i tecnici di prodotto, sia gli operai, erano stati selezionati, fior da fiore, tra le maestranze numerosissime occupate negli stabilimenti canavesani.
Gli interessati avevano un inquadramento categoriale superiore alla media. Erano e si sentivano una elite.
Potevano mai dei “disertori della vanga” di questa Campania Felix ereditare da loro il know how necessario?
Non potevano crederci, non volevano crederci. Gli doleva, oltretutto, perdere quel privilegio di essere nella loro patria i primi della classe.
Essi ignoravano che già verso la fine del 1700, in quelle zone, in particolare a San Leucio, il re Carlo di Borbone aveva sperimentato con successo, con l’aiuto di imprese torinesi e del nord Italia, l’avviamento di un’attività molto complessa : la tessitura della seta.
Ancor oggi, la seta di San Leucio è molto rinomata.
Ho voluto fare questa digressione per cercare di far capire i motivi essenziali che avevano creato quel clima di tensione tra questi due gruppi : i maestri, arrivati da Ivrea, e gli allievi della Terra laboris.
Ma torniamo alla nostra cena.
Marino era arrivato tra i primi. Si stava costruendo un avanzamento di carriera. E, dopo qualche tempo, avrebbe raccolto i frutti anche per queste attività, diciamo di public relation, che esulavano dai suoi compiti.
Anch’io sarei voluto giungere in anticipo, ma, a quei tempi, ero fidanzato con una delle impiegate che, a tale titolo, avrebbe partecipato alla festa, e, si sa, che le spinte alle belle donne, per affrettarsi nelle operazioni di maquillage, cadono inesorabilmente nel vuoto.
E la mia ragazza era bella, almeno ai miei occhi, e, sinceramente avrei gradito che magari un bel colpo di febbre l’avesse sottratta a quella serata in mezzo ai lupi.
Ma, solo ora lo posso confessare, a quei tempi diciamo che dovevo soffrire in silenzio. Bisognava essere al passo coi tempi, superiore a queste gelosie, insomma moderni.
Ed io, non so se con successo, cercai di apparire così.
Appena giunti alla Bomboniera, ci dividemmo e, dopo aver fatto un giro intrattenendoci, quasi come dei padroni di casa, con vari gruppetti a scambiare qualche convenevole, alla fine ci accomodammo a due tavoli diversi, a due tavoli lontani tra loro.
I dirigenti, i capi e gli impiegati in genere, ci eravamo distribuiti nei tavoli assieme agli operai neo-assunti.
Con i “polentoni” si era seduto il napoletanissimo Marino il quale si era trascinato, nel vero senso della parola, altri due suoi colleghi del sud.
Ormai sembrava che ci fossimo tutti e si poteva iniziare.
Pietro Ricciardi, con la sua eloquenza asciutta, senza retorica, con quello stile che lasciava intravedere la scuola di Adriano Olivetti, fece un breve discorso e, augurando a tutti un buon appetito, dette l’avvio alle danze.
E fu un concerto eccezionale per i nostri palati.
Si cominciò con antipasti a base di salame napoletano, mozzarella di bufala, prosciutto paesano, ulive di Gaeta, frittelle di “pasta crisciuta”, “ciurille” e “panzarotti”.
Esattamente secondo le tradizioni di questi luoghi.
In realtà mancavano le Rane che, ancora, si pescavano nei regi lagni e venivano preparate, spesso, fritte e che io, napoletano doc, avevo scoperto solo dopo aver iniziato questa nuova esperienza lavorativa.
Certo che gli antipasti piemontesi, che avevo avuto modo di gustare nelle mie tante trasferte ad Ivrea, erano molto più ricchi. Le portate erano numerosissime: salumi vari, fontina, toma, tomini freschi al verde elettrici, lingua in salsa verde, vitel tonè, Carne all’albese con gorgonzola, crostoni ai peperoni e acciughe, crostoni al lardo e castagne, acciughe al verde, e tanti altri ancora.
Quelli piemontesi consistevano in tantissimi assaggini; i nostri erano molto meno, però, a mio avviso, più corposi.
Di sottocchio osservavo i “nordici” per vedere le loro espressioni e mi rendevo conto che gradivano, si gradivano molto e si aiutavano sorseggiando, si fa per dire, quel vinello che, pur non essendo un Falerno del Massico, era un rosso ben corposo e sicuramente non di bassa gradazione.
Qualche anno dopo, scoprii che era molto diffusa la consuetudine in quelli di Marcianise di vinificare nelle proprie case mescolando uve locali ed uve pugliesi, che ne alzavano la gradazione. E mi lasciai coinvolgere in questa gioiosa usanza, producendo, involontariamente, anche mille litri di aceto. Ma questa è un’altra storia.
Mentre eravamo in attesa di un assaggio di spaghettoni con soffritto, vidi arrivare al centro della sala, alcuni dei nostri bravi “disertori della vanga”, con fisarmonica e chitarre. Ci intrattennero così bene che, nonostante i nostri giovani stomaci affamati, l’attesa non ci apparve lunga.
Quando arrivarono questi primi piatti ben abbondanti, altro che assaggi, di nuovo sbirciai i “maestri” per vedere come reagivano al piccante, tipico di questa ricetta ma, che forse su indicazioni di qualcuno (chissa chi), mi appariva un po’ eccessiva la quantità di peperoncino usata.
I piemontesi si comportarono da Machos e, senza colpo ferire, fecero fuori questi spaghetti “al fuoco” che spegnevano traguggiando bicchieroni di vino.
Dopo il piacevole secondo intervallo musicale, tornarono i camerieri riempendo i tavoli con una pietanza leggera : Costatelle e salsicce di maiale fritte accompagnate da patate fritte e “friarielli”. Un’altra botta al fegato!
Poco o niente, però, rispetto alle allegre libagioni che accompagnarono quest’ultima portata.
Un altro po’ di musica ed arrivò la grande torta. Adesso il personale della Bomboniera, che cominciava ad essere stanco, avrebbe gradito che il tutto si concludesse velocemente, per chiudere e tornarsene a casa.
A questo punto, ci fu un ultimo piccolo discorso, di riconoscenza e di ringraziamento, a quelli che il giorno dopo sarebbero ritornati nelle nebbie di Ivrea e dintorni.
Questa volta lo tenne Marino a nome di tutti gli operai del nuovo comprensorio industriale del sud.
E alla fine: champagne!
Non restava che scambiarci i saluti ed andar via.
Era quello che tutti pensavamo ma non alcuni piemontesi.
Da come parlavano, si capiva chiaramente che avevano alzato il gomito. Volevano restare là e continuare a bere fino all’alba, dicevano.
Mi avvicinai a Ricciardi e concordammo che non potevamo lasciarli là. Dopotutto la prenotazione era stata fatta a nome dell’azienda. Ma come fare, come convincerli o, peggio, imporgli di andar via.
Qui il solito Marino ci venne in soccorso e, quasi, si guadagnò i galloni sul campo.
Non vi preoccupate, ci penso io. Fiduciosi lo lasciammo là.
In verità io mi misi in macchina, con la mia ragazza, e mi appostai poco distante. Volevo essere sicuro che tutto si risolvesse al meglio. Eppoi, a dire il vero, non mi spiaceva affatto stare un po’ appartato con la mia compagna.
In verità, a stento mi accorsi quando, di lì a poco, Marino uscì a seguito dei sette o otto renitenti ad abbandonare quel ristorante. Eppure fecero un sacco di chiasso. Lui che quasi a spinta li caricava nelle loro due macchine e, salito nella sua, gli faceva segno di seguirlo.
Malvolentieri anch’io misi in moto e presi la direzione verso Napoli, dove saremmo ritornati alle nostre case.
Come avrà fatto a convincerli? Visto che a indicato a loro di seguirlo, dove li avrà portati? Mi chiedevo mentre, imboccata l’autostrada, schiacciavo l’accelleratore.
Il mistero lo scoprii il giorno dopo.
Lo scugnizzo napoletano gli aveva offerto di andare a donne, poi li aveva portati all’autogrill di San Nicola la Strada. Li aveva fatti accomodare al bar e aveva detto loro che andava a telefonare. Eppoi? Gli chiesi io.
A quel punto – mi rispose — l’immagine della Olivetti era salva, io ne avevo le palle piene, li ho mollati e quatto quatto me la sono squagliata.
E così era andata la prima cena aziendale della nuova costituenda realtà industriale Olivetti di Marcianise.