A pranzo con Carlo De Benedetti parlando della Olivetti

trat­to da  Car­lo De Bene­det­ti a Poz­zuo­li inau­gu­ra­zio­ne Oli­vet­ti Sanyo

Di Pao­lo Bricco 
(cour­te­sy of Il sole 24 ore del 29–04- 2018)

Oli­vet­ti è una straor­di­na­ria sto­ria di suc­ces­so nel­le sue ripe­tu­te meta­mor­fo­si». Car­lo De Bene­det­ti è nel­la sua casa in col­li­na, a Doglia­ni. Cà di Nostri è una vec­chia casci­na acqui­sta­ta e rimes­sa a posto die­ci anni fa. Sot­to i nostri occhi si tro­va­no i fila­ri di Dol­cet­to del­la fami­glia Einau­di. Qua­ran­ta anni fa arri­va­va a Ivrea. «Scom­par­se le mac­chi­ne da scri­ve­re e le cal­co­la­tri­ci mec­ca­ni­che la Oli­vet­ti si è inven­ta­ta l’informatica distri­bui­ta e, quan­do que­sta è anda­ta in cri­si in Ita­lia e in tut­to il mon­do, ha dato alla luce la sua enne­si­ma nuo­va vita gene­ran­do Omni­tel, la mag­gior crea­zio­ne di valo­re del­la sto­ria dell’economia ita­lia­na. E que­sto natu­ral­men­te dopo aver paga­to tut­ti: le ban­che, i for­ni­to­ri, i dipen­den­ti, i fon­di pensione».

Cà di Nostri è per lui un’abitazione del cuo­re: «Ci ven­go spes­so anche se in manie­ra discon­ti­nua, tra­scor­ro qui parec­chio tem­po, quan­do arri­vo in mac­chi­na da Luga­no o in aereo da Roma, alla vista di que­ste col­li­ne mi scat­ta un sen­so di agio e sere­ni­tà». Oggi, a cau­sa del­la foschia all’orizzonte, non si vedo­no le Alpi dal Mon­vi­so al Mon­te Rosa, che inve­ce si sta­glia­no net­te all’orizzonte quan­do il cie­lo è lim­pi­do. La quie­te del­le Lan­ghe è inter­rot­ta solo dall’abbaiare dei due grif­fo­ni di Bru­xel­les da cit­tà («uno si chia­ma Artu­ro, l’altro Ing., così ha volu­to mia moglie Sil­via») e dei due jack rus­sell da cam­pa­gna Tip e Tap.

Nell’aprile del 1978, De Bene­det­ti assu­me il con­trol­lo di una Oli­vet­ti decot­ta che l’anno pri­ma, a fron­te di 1.365 miliar­di di lire di rica­vi, ave­va 1.536 miliar­di di debi­ti, 100 miliar­di di per­di­te net­te e una capi­ta­liz­za­zio­ne di Bor­sa di 50 miliar­di: il 26 apri­le del 1978 veni­va coop­ta­to nel con­si­glio di ammi­ni­stra­zio­ne, diven­tan­do ammi­ni­stra­to­re dele­ga­to e vice­pre­si­den­te, con pre­si­den­te il Gran Bor­ghe­se Bru­no Visen­ti­ni, giu­ri­sta e repub­bli­ca­no. Il 2 mag­gio di quell’anno entra­va per il suo pri­mo gior­no a Palaz­zo Uffi­ci a Ivrea.

Quel­la ristrut­tu­ra­zio­ne e quel rilan­cio sono diven­ta­ti un caso di scuo­la, per­ché basa­ti sul­la rior­ga­niz­za­zio­ne del­le fab­bri­che e sul con­trol­lo di gestio­ne, sull’introduzione dei bilan­ci con­so­li­da­ti e sul­la finan­za di impre­sa, fino alla chiu­su­ra del cer­chio del­la meta­mor­fo­si dell’informatica distri­bui­ta: «L’Olivetti era una azien­da a pre­va­len­za elet­tro­mec­ca­ni­ca. Arri­va­vo dal­la Fiat Caser­ma. Entra­vo nel­la Oli­vet­ti Fab­bri­ca del­le Idee. Impie­gai pochi gior­ni a diven­ta­re oli­vet­tia­no. Man­ten­ni due sto­ri­ci col­la­bo­ra­to­ri di Adria­no, Ren­zo Zor­zi e Mario Caglie­ris, alle rela­zio­ni cul­tu­ra­li e alle rela­zio­ni inter­ne. Men­tre scom­pa­ri­va­no mac­chi­ne da scri­ve­re e cal­co­la­tri­ci, pro­se­guim­mo nel­la muta­zio­ne di pel­le che ci por­tò all’informatica distri­bui­ta. Una evo­lu­zio­ne radi­ca­le e pro­fon­da, che ripe­tem­mo quin­di­ci anni dopo con la tele­fo­nia mobile».

Un pas­sag­gio irri­pe­ti­bi­le del­la nostra vicen­da, un tas­sel­lo fon­da­men­ta­le di un mosai­co ita­lia­no che allo­ra – con la rivo­lu­zio­ne del per­so­nal com­pu­ter, l’M24 è del 1984 – ave­va anche il pro­fi­lo inter­na­zio­na­le del­la lea­der­ship euro­pea dell’automobile (la Fiat Uno di Vit­to­rio Ghi­del­la), del­la pri­ma­zia sexy e sfron­ta­ta del­la moda con i nego­zi di Gior­gio Arma­ni e di Gian­ni Ver­sa­ce a Los Ange­les su Rodeo Dri­ve e a New York sul­la Fifth Ave­nue, del­la for­za del­la ter­ra dei Fer­ruz­zi gui­da­ti da Raul Gar­di­ni e del­la inno­va­zio­ne ere­ti­ca nel­la gover­nan­ce del­la Mon­te­di­son del fau­to­re del­la public com­pa­ny Mario Schimberni.

La vita pri­va­ta e la vita pub­bli­ca si sovrap­pon­go­no, si inse­guo­no e si mesco­la­no. Nel giar­di­no di que­sta casa in col­li­na è mon­ta­ta una por­ta di cal­cio. «Qui ven­go­no soprat­tut­to i nipo­ti di mia moglie Sil­via, che sono anco­ra ragaz­zi­ni, men­tre i miei nipo­ti sono tut­ti lau­rea­ti o lau­rean­di».

Pochi gior­ni fa, il 18 apri­le, la Cor­te d’Appello di Tori­no ha assol­to lui, il fra­tel­lo Fran­co, Cor­ra­do Pas­se­ra e altri die­ci diri­gen­ti dal­la respon­sa­bi­li­tà di ave­re pro­vo­ca­to mor­ti e malat­tie in Oli­vet­ti con l’amianto, per­ché il fat­to non sus­si­ste. Nel 2016, il Tri­bu­na­le di Ivrea ave­va a sor­pre­sa com­mi­na­to pene pesan­ti. Lui pre­fe­ri­sce non com­men­ta­re, anche se sor­ri­de men­tre gli ricor­do una sua bat­tu­ta – non gua­sco­na e pro­vo­ca­to­ria come al suo soli­to, ma in quell’occasione ama­ra — di qual­che anno fa, quan­do in mol­ti era­no rima­sti stu­pi­ti per que­ste accu­se che ave­va­no lascia­to di stuc­co pri­ma di tut­to gli inda­ga­ti: «Bric­co, glie­lo garan­ti­sco. Io nel­la mia vita ho fat­to tan­te cose, giu­ste e sba­glia­te, ma le assi­cu­ro che con i mor­ti per amian­to non c’entro nulla».
De Bene­det­ti riflet­te sul­la tra­iet­to­ria del­la Oli­vet­ti. E sui mec­ca­ni­smi di rico­stru­zio­ne del­la memo­ria sto­ri­ca che – misce­lan­do eco­no­mia e poli­ti­ca, per­so­na­li­smi e gio­chi di pote­re – han­no reso la Oli­vet­ti qual­co­sa di inac­cet­ta­bi­le, qua­si di sca­bro­so, comun­que di com­pli­ca­to da maneg­gia­re e da con­si­de­ra­re con razio­na­li­tà e obiet­ti­vi­tà: «Nei suoi cen­to anni di vita, da Camil­lo e Adria­no fino a me, la Oli­vet­ti è sta­ta segna­ta dal­la cul­tu­ra lai­ca in un Pae­se con­fes­sio­na­le e da un fon­do ebrai­co in una socie­tà con perio­di­che pul­sio­ni anti­se­mi­te. Ma, soprat­tut­to, la Oli­vet­ti è sta­ta carat­te­riz­za­ta dal­la estra­nei­tà al siste­ma tra­di­zio­na­le del pote­re ita­lia­no. Nel 1957 Adria­no Oli­vet­ti donò l’Espresso a Car­lo Carac­cio­lo, Euge­nio Scal­fa­ri e Arri­go Bene­det­ti, costret­to dal suo mana­ge­ment e dal­la sua fami­glia dopo che Con­fin­du­stria, non solo per le inchie­ste del gior­na­le ma anche per le sue cri­ti­che pub­bli­che agli indu­stria­li, ave­va boi­cot­ta­to i suoi pro­dot­ti. A con­di­zio­ni sto­ri­che diver­se anche io, che non ho mai nasco­sto la pas­sio­ne per la poli­ti­ca e che mi sono sem­pre con­ces­so il lus­so di dire quel­lo che pen­sa­vo, mi sono sen­ti­to un mave­rick, un cane sciol­to, in una azien­da che è sta­ta una ano­ma­lia nel capi­ta­li­smo ita­lia­no e internazionale».

Pri­ma di seder­ci a tavo­la, pren­dia­mo un ape­ri­ti­vo vege­ta­ria­no, suc­co di caro­te e ver­du­re cru­de. A quarant’anni dall’acquisizione del­la Oli­vet­ti, De Bene­det­ti espri­me un biso­gno per­so­na­le e una neces­si­tà gene­ra­le. Il biso­gno per­so­na­le riguar­da l’ultimo pas­sag­gio del­la Oli­vet­ti di sua pro­prie­tà. La neces­si­tà gene­ra­le è l’inquadramento del­la vicen­da oli­vet­tia­na nel con­te­sto più gene­ra­le del­la Sto­ria ita­lia­na ed euro­pea. «Mi infa­sti­di­sce – dice – che pri­ma per la destra ita­lia­na, non solo quel­la ber­lu­sco­nia­na ma anche quel­la di matri­ce post­fa­sci­sta, e poi per i Cin­que Stel­le io sia sta­to l’affossatore del­la Oli­vet­ti. Non è così». Un fasti­dio reso più acu­to dal­la radi­ce che a Ivrea han­no i Cin­que Stel­le, con Gian­ro­ber­to Casa­leg­gio che ini­ziò la sua car­rie­ra come pro­get­ti­sta di soft­ware alla Oli­vet­ti («non l’ho mai cono­sciu­to, come non ho mai cono­sciu­to Bep­pe Gril­lo, l’unico espo­nen­te dei Cin­que Stel­le che ho incon­tra­to è la sin­da­co di Tori­no Chia­ra Appen­di­no, quan­do Espres­so-Repub­bli­ca ha rile­va­to la Stam­pa») e con il figlio Davi­de che orga­niz­za ogni anno alle Offi­ci­ne H l’incontro annua­le in memo­ria del padre (l’ultimo è sta­to pochi gior­ni fa, l’11 aprile).

«Io apprez­zo mol­to Ser­gio Mar­chion­ne. Ma che cosa avreb­be fat­to se, al suo arri­vo nel­la Fiat semi­fal­li­ta del 2004, non fos­se­ro più esi­sti­te le auto­mo­bi­li? Dall’Olivetti che io ho gesti­to sono scom­par­si pri­ma i suoi pro­dot­ti fon­da­men­ta­li, da scri­ve­re e da cal­co­lo; poi il per­so­nal com­pu­ter, intro­dot­to nel 1982, ver­so la fine degli anni Ottan­ta è ini­zia­to a diven­ta­re una com­mo­di­ty. Era­no i pro­dut­to­ri di micro­pro­ces­so­ri e di soft­ware, Intel e Micro­soft, ad assor­bi­re tut­to il valo­re aggiun­to. Fu un ter­re­mo­to: fra il 1990 e il 1995 noi del­la Oli­vet­ti pas­sam­mo da 53mila a 30mila dipen­den­ti, il 44% in meno, gesti­ti con gli stru­men­ti di leg­ge, come la cas­sa inte­gra­zio­ne, usa­ti da tut­ti. L’Ibm sce­se da 375mila a 225mila: 40% in meno. In quei cin­que anni la Bull qua­si dimez­zò gli occu­pa­ti: da 45mila a 24mila. Lo stes­so capi­tò alla Dec: da 115mila a 60mila addet­ti. E l’elenco del­le azien­de potreb­be con­ti­nua­re: l’inglese Icl, la tede­sca Nix­dorf e la par­te infor­ma­ti­ca del­la Sie­mens. Sono tut­te scomparse».

Ci spo­stia­mo nel­la sala da pran­zo: ci vie­ne ser­vi­to riso basma­ti, che io pren­do in bian­co con un filo d’olio e del par­mi­gia­no reg­gia­no e che l’Ingegnere man­gia inve­ce con­di­to con del sugo di pomo­do­ro. Tor­nia­mo a discu­te­re di uno dei più taciu­ti feno­me­ni sto­ri­ci che han­no segna­to la Sto­ria euro­pea degli ulti­mi trent’anni: la scom­par­sa di un inte­ro set­to­re indu­stria­le come l’informatica, una del­le fron­tie­re tec­no­lo­gi­che più avan­za­te. «Noi pro­dut­to­ri di infor­ma­ti­ca, fin dal­la fine degli anni Ottan­ta, facem­mo di tut­to per far­ci ascol­ta­re a Bru­xel­les. Ser­vi­va una poli­ti­ca indu­stria­le comu­ni­ta­ria che con­cen­tras­se risor­se ingen­ti. Biso­gna­va pareg­gia­re, alme­no in par­te, la for­za finan­zia­ria del­la ricer­ca mili­ta­re ame­ri­ca­na e il mec­ca­ni­smo pub­bli­co e pri­va­to del­la Sili­con Val­ley. Non fu pos­si­bi­le. Uno che lo ave­va capi­to bene era Jac­ques Delors: lui mi spie­gò bene che la lob­by dell’auto era for­tis­si­ma e che, in vir­tù del­le deci­ne di milio­ni di posti di lavo­ro che da essa dipen­de­va­no, era impos­si­bi­le limi­tar­ne l’influenza e spo­sta­re le risor­se. Lo com­pre­si anche par­lan­do con Gerhard Schrö­der. Per lui il mon­do del­le fab­bri­che dell’auto era cen­tra­le. Non a caso, trent’anni dopo in Fran­cia lo Sta­to è pro­prie­ta­rio del 15% di Renault e del 14% di Peu­geot e, in Ger­ma­nia, il Land del­la Bas­sa Sas­so­nia ha il 20% del grup­po Volk­swa­gen».

A que­sto pun­to del­la con­ver­sa­zio­ne, lui pren­de del bran­zi­no in padel­la con dei car­cio­fi. Io, con i car­cio­fi, man­gio dei deli­zio­si strac­cet­ti di man­zo. «La car­ne di Doglia­ni è buo­nis­si­ma. Io mi sen­to mol­to affe­zio­na­to a que­sta comu­ni­tà. Qui par­lo pie­mon­te­se. Vado ogni gior­no in pae­se. La dome­ni­ca pren­do il caf­fè al bar. Nel cimi­te­ro di Doglia­ni ho com­pra­to la tom­ba di fami­glia, dove voglio esse­re sepolto».

A qua­si 84 anni, è natu­ra­le tira­re del­le linee. «La crea­zio­ne di Omni­tel fu entu­sia­sman­te. Par­tim­mo nel 1990. Nel 1991, la Sip rica­va­va 1.200 miliar­di di lire dai tele­fo­ni­ni ed era un vero mono­po­li­sta, in appa­ren­za inscal­fi­bi­le. Enri­co Cuc­cia non ci cre­de­va e non la finan­ziò. Nel 1993 rac­co­gliem­mo 1.600 miliar­di di lire da Jp Mor­gan, Cha­se Man­hat­tan e Socié­té Géné­ra­le. Due anni dopo, sareb­be­ro diven­ta­ti 1.800 miliar­di». Al con­tem­po ci sono il lavo­ro indu­stria­le e rego­la­to­rio. Omni­tel è una star­tup in cui sono assun­ti nuo­vi spe­cia­li­sti con nuo­ve com­pe­ten­ze: una scel­ta indi­spen­sa­bi­le per evi­ta­re che si tra­sfor­mi – negli auto­ma­ti­smi indu­stria­li incon­sci – nel con­te­ni­to­re in cui river­sa­re il per­so­na­le in ecces­so dal­la obso­le­scen­te infor­ma­ti­ca distri­bui­ta e per costrui­re una nuo­va cul­tu­ra dei ser­vi­zi, diver­sa dal­la cul­tu­ra del­la fab­bri­ca. Il 16 dicem­bre 1993, il gover­no Ciam­pi ema­na il ban­do per la gara. In com­pe­ti­zio­ne ci sono Omni­tel-Pron­to Ita­lia e Uni­tel, il con­sor­zio imper­nia­to su Fiat e Media­set. Il 2 mar­zo 1994 ven­go­no aper­te le buste da par­te di Bain Cuneo e Citi­bank, scel­te dal Gover­no per l’analisi del­le offer­te. «Vin­cem­mo noi. E, anco­ra una vol­ta, dis­se­ro che era­va­mo sta­ti favo­ri­ti dal gover­no Ciam­pi. Chi lo dice dimen­ti­ca una cosa: la con­ces­sio­ne ven­ne for­ma­liz­za­ta dal gover­no di Sil­vio Ber­lu­sco­ni, non pro­pria­men­te un mio ami­co. La fir­ma fu appo­sta dal mini­stro del­le Tele­co­mu­ni­ca­zio­ni, Giu­sep­pe Tata­rel­la. Se ci fos­se sta­ta una vir­go­la fuo­ri posto o un sospet­to su un qua­lun­que pas­sag­gio, avreb­be­ro bloc­ca­to tutto».

Ci spo­stia­mo di nuo­vo in salot­to. Io bevo il caf­fè e lui un gin­ger cal­do. Nota De Bene­det­ti: «Omni­tel è cre­sciu­ta da zero a 35mila miliar­di di lire nel­la valu­ta­zio­ne degli ana­li­sti. Ave­va in pan­cia più liqui­di­tà di una ban­ca. E, non a caso, quan­do io non ero più nel grup­po, la sua ces­sio­ne a Man­ne­smann ha con­sen­ti­to la sca­la­ta a Telecom».

Car­lo De Bene­det­ti e la Oli­vet­ti. Car­lo De Bene­det­ti e l’Italia. Car­lo De Bene­det­ti e se stes­so. «Nel­la mia vita, come tut­ti, ho fat­to mol­ti erro­ri. Dal pun­to di vista finan­zia­rio ed eco­no­mi­co, nel 1988, aven­do una clau­so­la di put mol­to favo­re­vo­le, avrei dovu­to ven­de­re Oli­vet­ti ad AT&T e non l’ho fat­to. Sono con­ten­to, avrei tra­di­to la mia impre­sa e la mia natu­ra olivettiana».

Men­tre mi accom­pa­gna alla mac­chi­na, snoc­cio­lia­mo i nomi di chi ha lavo­ra­to in Oli­vet­ti: per limi­tar­ci al suo perio­do Else­ri­no Piol e Fran­co Tatò, Cor­ra­do Pas­se­ra e Fran­ce­sco Caio, Vit­to­rio Colao e Sil­vio Sca­glia: «Ami­ci di un tem­po, ami­ci anco­ra attua­li e non più ami­ci, non impor­ta. Tut­ti pro­ta­go­ni­sti del­la stes­sa sto­ria». E, poi, da vec­chio inge­gne­re pie­mon­te­se che si sen­te in dove­re di stu­dia­re le cose pri­ma di dir­le, l’Ingegnere con­clu­de: «Io que­sta cosa non l’ho stu­dia­ta. Ma l’ho vis­su­ta e l’ho capi­ta. Le impre­se han­no una ani­ma. E soprav­vi­vo­no a loro stes­se. Lo spi­ri­to del­la Oli­vet­ti esiste».