di Beniamino de’ Liguori Carino
A sessant’anni dalla morte, molti trovano nelle idee e nell’azione di Adriano Olivetti il paradigma suggestivo di un mondo nuovo, costruito attorno all’identità tra progresso materiale, efficienza tecnica, primato della cultura ed etica della responsabilità. Da questo punto di vista il decennio che si è appena concluso ha segnato un momento chiave nell’elaborazione della prolifica eredità culturale olivettiana, complicata e per molti versi largamente rimossa dalla memoria di questo Paese. Al di là di ogni retorica celebrativa o tentazione da antiquari, ciò che è davvero essenziale – per spiegare l’esperienza olivettiana e proiettarla verso il futuro – è capire quale sia la natura di quella forza così impalpabile eppure così concreta che muove l’ammirazione, la passione, talvolta la diffidenza, la nostalgia e tutti i sentimenti che accompagnano l’evocazione di Olivetti.
Iosif Brodsky sosteneva che la bellezza non può essere programmata perché è sempre l’effetto secondario di altri fini, spesso molto normali. I fini dell’opera di Adriano Olivetti non si trovavano, è lui a scriverlo, “solo nell’indice dei profitti”, e oggi come allora rimandano alla stessa domanda che il nostro tempo continua a porci: come costruire una società che sia materialmente progredita senza per questo essere umanamente imbarbarita, in cui tolleranza e bellezza “siano nomi e non voci prive di senso”.
Dov’è allora la sorgente di questa energia che ha attraversato mezzo secolo e che oggi è ancora così intensa da trasformarsi in attività di ogni genere e natura: ricerche, dibattiti, libri, mostre internazionali (ultima quella che inaugurerà in primavera, realizzata dal Ministero degli Affari Esteri in collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti e la Fondazione MAXXI)? Probabilmente nell’intuizione che la straordinaria capacità della nostra specie di creare, con il lavoro e con l’ingegno, ricchezza e innovazione deve servire un principio che non ha tempo e non ha luogo: il rispetto della dignità delle persone, chiunque esse siano e da ovunque esse provengano.
Un riconoscimento simbolico di tutto questo è stato nel 2018 l’iscrizione di “Ivrea Città industriale del XX secolo” nella Lista del patrimonio dell’umanità presso l’UNESCO. La sera prima della cerimonia inaugurale osservavo lo studio di Adriano Olivetti a Ivrea in quella che è stata la sua ultima casa. Sulla scrivania Adriano teneva una foto dove è ritratta la sua seconda moglie con in braccio la loro bambina, mia madre. Davanti alla foto ci sono due piccole colombe in pietra dipinte a mano che aveva riportato da un viaggio di lavoro in Messico e che rappresentano la libertà e la fratellanza tra popoli. Oltre la foto c’è una grande finestra da dove si vedono le montagne e s’intuisce chiaramente il profilo di uno degli edifici della fabbrica. Questo era ciò che vedeva Adriano Olivetti e, ho pensato in quel momento, è in fondo ciò che anch’io mi auguro per le mie figlie: di crescere in un mondo affettuoso e con il coraggio dell’innovazione, vicine alle loro radici e allo stesso tempo libere.
Insomma, quello che oggi celebriamo di Olivetti altro non è che il tentativo antico di realizzare un’ambizione semplice: una società dove a nessuno sia negato il diritto di godere di un sorriso e di un abbraccio, dove a nessuno sia negato il diritto alla conoscenza e alla bellezza, dove a nessuno sia negato il diritto alla libertà. Un mondo dove a nessuno sia negato, soprattutto, il diritto umano all’accoglienza e alla pace.