Antonio Donnarumma operaio disoccupato e Ottiero Ottieri capo del personale

Don­na­rum­ma all’as­sal­to di Ottie­ro Ottieri

Com­po­sto nel­la secon­da metà degli anni ‘50, in (e per par­la­re di) una socie­tà che cam­bia­va, e non in manie­ra omo­ge­nea sull’intero ter­ri­to­rio nazio­na­le, Don­na­rum­ma all’assalto tor­na in libre­ria gra­zie alla risco­per­ta di Uto­pia. L’opera, che si col­lo­ca, per la sua natu­ra ibri­da, in equi­li­brio tra il roman­zo e il repor­ta­ge, si ispi­ra alla rea­le espe­rien­za lavo­ra­ti­va di Ottie­ri nel­la nuo­va sede del­la Oli­vet­ti di Poz­zuo­li

UNA FABBRICA, UN MONDO

Nar­ra­to­re è un impie­ga­to invia­to dal nord per occu­par­si del­la sele­zio­ne del per­so­na­le sfrut­tan­do le nuo­ve arti del­la psi­co­tec­ni­ca. La sua, ini­zial­men­te, è la pro­spet­ti­va otti­mi­sti­ca e sot­til­men­te pater­na­li­sti­ca del fore­stie­ro, impor­ta­to­re di pro­gres­so in un ter­ri­to­rio fer­ti­le ma anco­ra non valo­riz­za­to. Non a caso, ini­zial­men­te, egli uti­liz­za un “noi” che incar­na una visio­ne col­let­ti­va, azien­da­le, ma più gene­ri­ca­men­te “nor­di­ca”, ine­vi­ta­bil­men­te bor­ghe­se, del con­te­sto in cui si tro­ve­rà pre­sto immerso.

Que­sto pae­se è come una minie­ra uma­na; cova fra le più pro­fon­de ric­chez­ze d’uomini nel mon­do. Noi sia­mo venu­ti a sco­pri­re un nuo­vo, dif­fi­ci­le oro, sepol­to dal­la natu­ra e dal­la sto­ria. (p. 7)

Lo sta­bi­li­men­to, moder­no, lumi­no­so, costrui­to secon­do tut­te le nuo­ve indi­ca­zio­ni rela­ti­ve alla qua­li­tà degli ambien­ti di lavo­ro, sor­ge come un’entità alie­na sul­la costa cam­pa­na, tra accia­ie­rie e tabac­chi («Di fron­te al gol­fo più sin­go­la­re del mon­do, que­sta fab­bri­ca si è ele­va­ta, nell’idea dell’architetto, in rispet­to alla bel­lez­za dei luo­ghi e affin­ché la bel­lez­za fos­se di con­for­to nel lavo­ro di ogni gior­no», p. 106). Si trat­ta di una fab­bri­ca con­ce­pi­ta «a misu­ra d’uomo», spie­ga il pre­si­den­te del­la socie­tà sce­so dal nord, pen­sa­ta per­ché «que­sti tro­vas­se nel suo ordi­na­to posto di lavo­ro uno stru­men­to di riscat­to e non un con­ge­gno di sof­fe­ren­za» (ibid.). Eppu­re non ser­vo­no che poche pagi­ne per vede­re, al di là dei nobi­li inten­ti e dei sala­ri più alti del­la zona, l’uomo scom­pa­ri­re tra gli ingra­nag­gi del­la pro­du­zio­ne in serie, la com­pe­ten­za risuc­chia­ta dal rit­mo fre­ne­ti­co, la neces­si­tà indi­vi­dua­le sovra­sta­ta dal­la leg­ge azien­da­le, sor­da e ine­lut­ta­bi­le. I nomi, fon­da­men­ta­li nel pro­ces­so di sele­zio­ne, fini­sco­no per scom­pa­ri­re in mez­zo ad altri nomi. Per gli ope­rai stes­si, i pati­men­ti dei momen­ti dell’assunzione pre­sto si con­fon­de­ran­no, si appiat­ti­ran­no, saran­no dimenticati.
I capi­to­li sono arti­co­la­ti ripren­den­do la scan­sio­ne dei gior­ni, che segna­la lo scor­re­re sem­pre ugua­le del­le set­ti­ma­ne e poi dei mesi, ma riman­da­no anche alla mono­to­nia del lavo­ro in serie, che si ripe­te sem­pre ugua­le e «scom­po­ne, fram­men­ta la per­so­na­li­tà uma­na» (p. 25) pro­prio nel momen­to in cui la costrin­ge a un’iperspecializzazione. Le pagi­ne dedi­ca­te ai meto­di pro­dut­ti­vi, al rap­por­to tra divi­sio­ne del lavo­ro e alie­na­zio­ne, si fan­no mani­fe­sto di una rifles­sio­ne socio­lo­gi­ca e antro­po­lo­gi­ca di lun­go cor­so, che non diven­ta meno attua­le con il pas­sa­re del tempo.
 

UNO SPAESAMENTO SU DIVERSI LIVELLI

Quel­lo che spe­ri­men­ta il sele­zio­na­to­re, non­ché io nar­ran­te, nel suo arri­vo a San­ta Maria è uno spae­sa­men­to cul­tu­ra­le su più livel­li. Il tas­so di disoc­cu­pa­zio­ne dell’area è altis­si­mo, spa­ven­to­sa la spro­por­zio­ne tra il nume­ro di posti offer­ti e i poten­zia­li lavo­ra­to­ri (più di qua­ran­ta­mi­la sono le doman­de già in archi­vio). A chi vie­ne da fuo­ri è impos­si­bi­le una com­pren­sio­ne pie­na, che non sia ine­vi­ta­bil­men­te super­fi­cia­le, di ciò che domi­na i can­di­da­ti, del­la dispe­ra­zio­ne che li por­ta a but­tar­si sot­to le ruo­te dell’auto del diret­to­re, o a far­gli la posta nel­la piaz­za del pae­se, del­la cor­ru­zio­ne dila­gan­te, del­le pre­te­se irra­zio­na­li. «Voi sie­te one­sto, dot­to­re. Veni­te dall’alta Ita­lia. Ma dove­te capi­re» (p. 90), com­men­ta un mem­bro del­la Com­mis­sio­ne Inter­na di fron­te a uno sde­gno che potrem­mo defi­ni­re antro­po­lo­gi­co. Ai ragio­na­men­ti sen­sa­ti, che obbe­di­sco­no a una seve­ra logi­ca azien­da­le, che è di atten­zio­ne all’uomo, ma pri­ma di tut­to al pro­fit­to («la fab­bri­ca ha le sue leg­gi. […] È la leg­ge dell’organizzazione. […] Solo l’organizzazione pro­dut­ti­va deci­de», p. 63), i disoc­cu­pa­ti oppon­go­no un’obiezione visce­ra­le, che annien­ta ogni pos­si­bi­le rispo­sta ragionevole: 

Voi ave­te ragio­ne”, ha ripe­tu­to anco­ra. “Ma io me moro di fame. E la fame è brut­ta, dot­to­re”. (p. 64)

 

DONNARUMMA CONTRO TUTTI

Nel­la rou­ti­ne mono­to­na e stra­nian­te dei col­lo­qui (e quel­li con chi potreb­be esse­re assun­to pas­sa­no qua­si in secon­do pia­no rispet­to a quel­li con chi assun­to non è sta­to, e ora recla­ma spie­ga­zio­ni, atten­zio­ne, pie­tà), la figu­ra gra­ni­ti­ca di Don­na­rum­ma irrom­pe e desta­bi­liz­za. Lui rifiu­ta di far­si risuc­chia­re dal­la pras­si, dal­le rego­le. È mos­so da un impe­ra­ti­vo cate­go­ri­co di cui igno­ra le ori­gi­ni o le ragio­ni, e si pian­ta come un cuneo all’interno di un siste­ma solo appa­ren­te­men­te ben oliato.

Ave­va il pet­to qua­dra­to in un maglio­ne, i capel­li gri­gi a spaz­zo­la, gli occhi duri; non guar­da­va nien­te, né l’interlocutore, né la stan­za. Ha solo deciso:
“Deb­bo lavo­ra­re, deb­bo fati­ca­re, dot­to­re”. (p. 109)

 

Lui non con­ce­pi­sce doman­da d’impiego, per­ché il lavo­ro deve esse­re dovu­to a chi lo vuo­le e lo deve fare. Non tol­le­ra mor­ti­fi­ca­zio­ne, ed è dispo­sto a usa­re la for­za per far vale­re il suo dirit­to. La sua pre­sen­za seria alle soglie del­lo sta­bi­li­men­to ne fa una sor­ta di Erin­ni, una figu­ra in gra­do di osses­sio­na­re la coscien­za dell’esaminatore. Don­na­rum­ma sfug­ge a ogni cata­lo­ga­zio­ne, a ogni nor­ma di buon­sen­so. Lui solo è in gra­do, come kryp­to­ni­te, di annien­ta­re ogni ali­bi, ogni ten­ta­ti­vo autoas­so­lu­to­rio. Se agli abi­tan­ti del pae­se è in lar­ga par­te suf­fi­cien­te rice­ve­re le atten­zio­ni dell’azienda, fos­se anche per un dinie­go, Don­na­rum­ma oppo­ne il no fer­mo, oppo­si­ti­vo, del suo cor­po, del suo spirito.

Il pae­se capi­sce, incon­sa­pe­vol­men­te, la con­nes­sio­ne tra la bel­lez­za del­lo sta­bi­li­men­to e il valo­re del “no“ spie­ga­to con miglia­ia di vuo­te paro­le, quel rifiu­to a ogni per­so­na che, nei gior­ni neri, appa­re una paz­zia inu­ti­le, un lus­so paternalistico.
“Ma Don­na­rum­ma?”.
“Don­na­rum­ma è paz­zo, dot­to­re”. (p. 173)

UNA QUESTIONE MERIDIONALE

La situa­zio­ne socia­le descrit­ta da Ottie­ri, il suo affon­do in una que­stio­ne meri­dio­na­le non risol­ta, non sem­bra così dif­fe­ren­te da quel­la ritrat­ta da Ver­ga sul fini­re dell’Ottocento: 

In que­sta zona indu­stria­le, l’industria vive arroc­ca­ta, goc­cia nel mare o nel­la sab­bia di una civil­tà di pesca­to­ri sen­za bar­ca e di con­ta­di­ni sen­za ter­ra. Nes­sun tes­su­to lega una fab­bri­ca e l’altra, non c’è pro­le­ta­ria­to. La disoc­cu­pa­zio­ne non uni­sce, ma sem­pre divi­de, tran­ne quan­do esplo­de. (p. 138)

L’attenzione di Ottie­ri non è mai ridut­ti­va o sem­pli­ci­sti­ca, mai foca­liz­za­ta su un solo aspet­to, o su ciò che avvie­ne all’interno del­lo sta­bi­li­men­to. Anzi, per com­pren­de­re ciò che avvie­ne den­tro, è fon­da­men­ta­le guar­da­re al fuo­ri, a un’area «ric­ca di reg­ge e pove­ra in ogni suo buco, anti­ca capi­ta­le depres­sa, nel dram­ma del mez­zo­gior­no», in cui «si spre­ca una mano­do­pe­ra sen­za ope­ra, una popo­la­zio­ne indu­stria­le sen­za indu­stria» (p. 150). Lo stes­so feno­me­no dell’alienazione, più vol­te chia­ma­to in cau­sa, al sud non può ave­re le stes­se for­me e mani­fe­sta­zio­ni che nel­le socie­tà indu­stria­liz­za­te del nord. Qui anche un’occupazione come il lavo­ro nel­la cate­na di mon­tag­gio diven­ta, con buo­na pace di Marx, meno sna­tu­ran­te per l’uomo del­la disoc­cu­pa­zio­ne a cui sareb­be altri­men­ti costret­to. Il roman­zo di Ottie­ri è dun­que popo­la­to di figu­re, tra­gi­che nel­la mise­ria che si tra­sci­na­no addos­so ed esi­bi­sco­no come ban­die­ra: Accet­tu­ra, Dat­ti­lo, Papa­leo, Chio­do… cia­scu­no sven­to­la la pro­pria sto­ria in cer­ca di com­pren­sio­ne e, di con­se­guen­za, di lavoro. 

UN DRAMMA ETICO NON RISOLTO

A que­sti si con­trap­po­ne il dram­ma, tut­to eti­co, dell’esaminatore, che ha in mano vite di cui deci­de­re, che deve pesa­re e tro­va­re un equi­li­brio tra i dati nume­ri­ci, le osser­va­zio­ni fat­tua­li e le impres­sio­ni per­so­na­li, limi­tan­do una inna­ta ten­den­za alla com­pas­sio­ne che potreb­be alte­ra­re la valu­ta­zio­ne, crean­do nuo­ve discri­mi­na­zio­ni. Ma «le bio­gra­fie sono più for­ti del giu­di­zio» (p. 177) e il con­fi­ne è dun­que labi­le, i limi­ti devo­no esse­re con­ti­nua­men­te riba­di­ti, anche a se stes­si. For­se è per que­sto che l’ufficio del per­so­na­le per­de in effi­cien­za, in asser­ti­vi­tà. Si con­ce­de trop­po all’ascolto, si lascia invi­schia­re nel­le fac­cen­de per­so­na­li degli uomi­ni e del­le don­ne. E se que­sto da un lato por­ta uma­ni­tà, dall’altro diven­ta ele­men­to di fra­gi­li­tà del siste­ma. Al nar­ra­to­re vie­ne dun­que annun­cia­to un suo pros­si­mo tra­sfe­ri­men­to, un ritor­no al nord:

For­se negli ulti­mi tem­pi la fab­bri­ca era trop­po una casa. Mori­va il signi­fi­ca­to poli­ti­co di essa, come espe­ri­men­to di indu­stria moder­na del mez­zo­gior­no, come accen­sio­ne di una nuo­va vita ope­ra­ia: non la giu­di­ca­vo più, non mi sde­gna­vo più, pre­so dal suo giro, affon­da­to nel suo fasci­no quo­ti­dia­no. (p. 206)

L’allontanamento, accom­pa­gna­to dal­la con­sa­pe­vo­lez­za di un lavo­ro non con­clu­so (for­se non con­clu­di­bi­le), lascia nel nar­ra­to­re un’amarezza in cui si mesco­la­no i blu del mare e del cie­lo e gli occhi scu­ri, vuo­ti, di Don­na­rum­ma, che si imma­gi­na impe­gna­to a orche­stra­re un ulti­mo assal­to, ma che, più pro­ba­bil­men­te, si fa sim­bo­lo di una uma­ni­tà sconfitta.

In un momen­to in cui alcu­ne ricer­che segna­la­no insod­di­sfa­zio­ne e males­se­re nel 70% dei lavo­ra­to­ri, il roman­zo di Ottie­ri tor­na a par­lar­ci con una for­za ina­spet­ta­ta, e risul­ta al let­to­re dav­ve­ro inquie­tan­te nota­re quan­te riso­nan­ze pos­sa­no tro­va­re nel pre­sen­te rifles­sio­ni nate in un con­te­sto sto­ri­co e socia­le così appa­ren­te­men­te lon­ta­no nel tempo.

Caro­li­na Pernigo