Architettura e Urbanistica alla Olivetti negli anni cinquanta

Ver­so la fine del 1980, le Edi­zio­ni di Comu­ni­tà pub­bli­ca­ro­no Adria­no Oli­vet­ti: un’i­dea di democrazia”.

Nel libro Geno Pam­pa­lo­ni che — com’è noto — di Adria­no fu fra i col­la­bo­ra­to­ri più vici­ni, ave­va rac­col­to gli arti­co­li che su di lui ave­va scrit­to nel cor­so di vent’anni.

Dal volu­me di Pam­pa­lo­ni “Archi­tet­tu­ra e Urba­ni­sti­ca negli anni cin­quan­ta alla Oli­vet­ti”, scrit­to alla fine del 1973, con una bre­ve nota intro­dut­ti­va dell’autore.

Adriano Olivetti consegna il "Premio di Architettura e Urbanistica" a Edoardo Detti  - Ivrea 1955

Adria­no Oli­vet­ti con­se­gna il “Pre­mio di Archi­tet­tu­ra e Urba­ni­sti­ca” a Edoar­do Det­ti — Ivrea 1955

Nel 1973 una rivi­sta mila­ne­se, pro­get­tan­do un fasci­co­lo spe­cia­le dedi­ca­to alle for­me e al signi­fi­ca­to del­le atti­vi­tà Oli­vet­ti nei cam­pi del­l’ar­chi­tet­tu­ra e del­l’ur­ba­ni­sti­ca, del desi­gn, ecc., chie­se anche la mia testi­mo­nian­za per il perio­do (1948–1960) duran­te il qua­le ave­vo col­la-bora­to da vici­no con Adria­no Oli­vet­ti, pri­ma al Cen­tro cul­tu­ra­le di Ivrea e via via agli uffi­ci di pre­si­den­za del­la socie­tà, alla dire­zio­ne cen­tra­le per le rela­zio­ni cul­tu­ra­li, all’Unr­ra-Casas, e come segre­ta­rio gene­ra­le del Movi­men­to Comunità.Quel fasci­co­lo non è mai usci­to, per ragio­ni che igno­ro, e riten­go uti­le pub­bli­ca­re per gli ami­ci la mia testi­mo­nian­za, se non altro per con­fron­ta­re insie­me con loro il lavo­ro rovi­no­so del tem­po sul­la memo­ria di cia­scu­no di noi. Mi pia­ce ricor­da­re qui con affet­to, in que­sto gior­no di fine d’an­no, alcu­ni degli ami­ci più cari di allo­ra, che non sono più con noi: Anto­nio Baro­li­ni, Gene­sio Ber­ghi­no, Giu­sep­pe Gagliar­do, Rigo Inno­cen­ti, Ric­car­do Musatti.

Diri­gi­smo este­ti­co: que­sta può esse­re una defi­ni­zio­ne, abba­stan­za appros­si­ma­ta, del pen­sie­ro di Adria­no Oli­vet­ti, per quel che riguar­da l’ar­chi­tet­tu­ra, l’ur­ba­ni­sti­ca, il desi­gn e in gene­re l’ar­te, nel perio­do in cui ho lavo­ra­to accan­to a lui, e cioè nel decen­nio fina­le del­la sua vita (dal 1948 al 1960).

Per cer­ca­re di ren­de­re con­to, sia pure all’in­gros­so, dei moti­vi com­ples­si che con­flui­ro­no a deter­mi­na­re quel pen­sie­ro, e giu­sti­fi­ca­re la mia defi­ni­zio­ne, occor­re­rà sof­fer­mar­si bre­ve­men­te a indi­vi­dua­re il qua­dro di rife­ri­men­to, sto­ri­co, cul­tu­ra­le e psi­co­lo­gi­co, entro il qua­le esso si col­lo­ca. Gli ele­men­ti essen­zia­li da pren­de­re in esa­me mi sem­bra­no i seguenti:

1) rifles­si del­la fun­zio­ne di avan­guar­dia eser­ci­ta­ta dal gio­va­ne Oli­vet­ti nel perio­do pre-bellico;

2) suc­ces­so indu­stria­le del dopo­guer­ra e sen­ti­men­to del­la respon­sa­bi­li­tà dell’impresa;

3) influen­za del­la cul­tu­ra ita­lia­na di quel perio­do carat­te­riz­za­ta dal­l’i­deo­lo­gia dell’impegno;

4) fase poli­ti­ca del Movi­men­to Comu­ni­tà; pole­mi­ca con la clas­se poli­ti­ca e ricer­ca di un “model­lo alter­na­ti­vo” di società;

5) ten­ta­ti­vo di crea­re le strut­tu­re essen­zia­li di una “Comu­ni­tà con­cre­ta” nel Cana­ve­se, attor­no alle fab­bri­che di Ivrea.

Mi pare evi­den­te, come risul­ta da que­sta elen­ca­zio­ne tema­ti­ca, che è impos­si­bi­le scin­de­re, nel­la figu­ra di Adria­no Oli­vet­ti, e quin­di nel movi­men­to di cul­tu­ra da lui pro­mos­so e con­di­zio­na­to dal peso del­la sua per­so­na­li­tà, ciò che gli deri­va­va dal­la rifles­sio­ne teo­ri­ca sul­le isti­tu­zio­ni poli­ti­che e ciò che gli deri­va­va dal-l’e­spe­rien­za di capo d’in­du­stria. Nel­la lea­der­ship poli­ti­ca che egli vagheg­gia­va, e che in qual­che misu­ra imper­so­nò, — a di-spet­to del­la sot­ti­gliez­za acca­ni­ta, “per­fe­zio­ni­sti­ca”, dei suoi pro-get­ti di un nuo­vo Sta­to — non era mai esclu­sa la par­te, che vor­rei dire pater­na, del pro­mo­to­re di pro­du­zio­ne. L’am­bi­gui­tà, a lun­go rim­pro­ve­ra­ta­gli, tra la pro­du­zio­ne di beni — da cui il sospet­to di neo­ca­pi­ta­li­smo masche­ra­to — e la pro­du­zio­ne di Bene — da cui il sospet­to di uto­pia e di pater­na­li­smo — era tut­to som­ma­to un’am­bi­gui­tà pie­na di for­za reli­gio­sa, una scom­mes­sa deci­si­va anche sul pia­no esi­sten­zia­le. Di qui l’i­dea, empi­ri­ca eppur vigo­ro­sa-men­te vis­su­ta, del­l’ar­chi­tet­tu­ra come arte pri­ma­ria, ma sem­pre nel cam­po del­le “arti appli­ca­te”. E di qui l’i­dea bipo­la­re del­la pia­ni­fi­ca­zio­ne urba­ni­sti­ca: scien­za inter­di­sci­pli­na­re che si espri­me in volon­tà poli­ti­ca, e al tem­po stes­so volon­tà poli­ti­ca che cul­mi­na in una poli­ti­ca del­la Forma.

Il discor­so ci por­te­reb­be mol­to lon­ta­no, e lo chiu­do subi­to. Ma è essen­zia­le aver­lo accen­na­to, per­ché è essen­zia­le, per ricon­dur­ci al cli­ma di Ivrea degli anni cin­quan­ta, ave­re pre­sen­te l’i­deo­lo­gia allo­ra domi­nan­te: il pote­re inte­so in pri­mo luo­go come inter­ven­to in favo­re del­la “qua­li­tà del­la vita”.

Geno Pam­pa­lo­ni