Dalla OMO alla OCN storia di una evoluzione

La OMO una realtà importante, ormai dimenticata
di Giu­sep­pe Silmo
La OMO (Offi­ci­na Mec­ca­ni­ca Oli­vet­ti), l’ultima ma la più ama­ta crea­tu­ra di Camil­lo, rag­giun­ge, soprat­tut­to nel dopo­guer­ra, tra­guar­di sem­pre più ambi­zio­si; tut­ta­via la pub­bli­ci­sti­ca e poi la sto­rio­gra­fia Oli­vet­ti ne han­no par­la­to pochis­si­mo e negli ulti­mi anni per nul­la. Il tipo di pro­dot­to stes­so non si pre­sta a esse­re pub­bli­ciz­za­to, non appas­sio­na il gran­de pub­bli­co. Ormai anche gli ulti­mi, pochis­si­mi, testi­mo­ni stan­no scom­pa­ren­do. Pochi gior­ni fa, il 26 gen­na­io, l’AD del­la Oli­vet­ti Con­trol­lo Nume­ri­co che si è inse­ri­ta sul sen­tie­ro trac­cia­to dal­la OMOGiu­sep­pe Calo­ge­ro, ci ha lascia­ti a 95 anni.[1]
È ora quin­di di scri­ve­re nuo­va­men­te que­ste righe, che in par­te ave­vo già scrit­to nel mio libro Oli­vet­ti. Una sto­ria bre­ve, alcu­ni anni fa, per ten­ta­re di man­te­ne­re vivo il ricor­do di una real­tà impor­tan­te nel­la sto­ria Oli­vet­ti e invi­ta­re altri a scriverne.
NASCE LA OMO IN VIA JERVIS
La OMO è nata per pre­ci­sa volon­tà di Cami­lo Oli­vet­ti che abi­tua­to ad un’officina dove cono­sce tut­ti, per­ché li ha scel­ti lui uno per uno, cono­sce le loro sto­rie e le loro atti­tu­di­ni e soprat­tut­to è abi­tua­to a inter­ve­ni­re diret­ta­men­te sui pro­ces­si pro­dut­ti­vi fin nei mini­mi det­ta­gli. Al cre­sce­re dell’azienda che lui stes­so ha por­ta­to alle dimen­sio­ni di un indu­stria mec­ca­ni­ca media, nel 1924 con­ta 400 per­so­ne, tra cui figu­ra­no anche inge­gne­ri e tec­ni­ci qua­li­fi­ca­ti, si ren­de con­to che l’officina sta­va per­den­do quel­la dimen­sio­ne uma­na dell’azienda che rispon­de­va inti­ma­men­te alla sua voca­zio­ne. Camil­lo è inol­tre un pro­get­ti­sta e un ricer­ca­to­re che vuo­le vede­re rea­liz­za­re i pro­pri pro­get­ti. Per cui vede un’unica stra­da: tor­na­re alle ori­gi­ni. Così ini­zia una nuo­va sfi­da nel 1926, con un grup­pet­to di vec­chi col­la­bo­ra­to­ri fon­da la OMO (Offi­ci­na Mec­ca­ni­ca Oli­vet­ti) dove poter fare le sue espe­rien­ze di progettazione.
Qui Camil­lo, oltre ad esser­ne il diret­to­re e prov­ve­de­re in pri­ma per­so­na all’assunzione dei dipen­den­ti, tra cui nel 1932 mio padre Mario Sil­mo, pro­get­ta le mac­chi­ne uten­si­li che dovran­no ser­vi­re per la pro­du­zio­ne di par­ti del­le mac­chi­ne per scri­ve­re. Que­ste mac­chi­ne fino ad allo­ra sono sta­te com­pra­te in Ame­ri­ca e in Germania.
La OMO pro­dur­rà prin­ci­pal­men­te fre­sa­tri­ci, ret­ti­fi­ca­tri­ci e tra­pa­ni di alta qua­li­tà e pre­ci­sio­ne. Il pro­dot­to rima­sto nel­la mito­lo­gia OMO è il tra­pa­no ver­ti­ca­le sen­si­ti­vo TS pro­dot­to in diver­se ver­sio­ni dal 1936. Uno di que­sti esem­pla­ri è sta­to posto al cen­tro di una roton­da ad Ivrea in via Tori­no, a ricor­da­re che la Oli­vet­ti non è sta­ta solo “mac­chi­ne per scrivere”.
Nel 1938, vie­ne pro­dot­ta, su pro­get­to di Camil­lo, la FP0, la pri­ma fre­sa­tri­ce a pial­la, par­ti­co­lar­men­te robu­sta e rigi­da, ido­nea per lavo­ri pesan­ti nel­le gran­di pro­du­zio­ni. La OMO pro­du­ce mac­chi­ne uten­si­li, sia per le esi­gen­ze pro­dut­ti­ve del­la fab­bri­ca di mac­chi­ne per scri­ve­re, che da ora per distin­guer­la si chia­me­rà ICO (Ing. Camil­lo Oli­vet­ti), sia per il mer­ca­to. Nel1936, pro­prio per que­sta aper­tu­ra sul mer­ca­to, l’officina acqui­si­sce il carat­te­re di strut­tu­ra indi­pen­den­te, ben distin­ta dagli altri set­to­ri dell’Olivetti. Nasce così un polo di eccel­len­za nel cam­po del­le mac­chi­ne uten­si­li di estre­ma pre­ci­sio­ne, si rag­giun­go­no livel­li di tol­le­ran­za di un micron (un mil­le­si­mo di mil­li­me­tro), che diven­te­rà una del­le azien­de lea­der nel settore.
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La OMO in via Jer­vis, anni ’50
Appe­na alla fine del­la guer­ra, nel 1946 la OMO pre­sen­ta la ret­ti­fi­ca­tri­ce uni­ver­sa­le auto­ma­ti­ca R2,[2] segui­ta dal­la R3, con­si­de­ra­ta la mac­chi­na di mag­gior impe­gno di quel perio­do, anche per l’originalità del pro­get­to.[3]
La OMO tro­va, negli anni ’50 -’60 il suo momen­to di mas­si­mo splendore.
Alla fine degli anni ’40 la OMO è ormai cre­sciu­ta e affron­ta nel 1951 la costru­zio­ne del­la pri­ma “trans­fer”, a cui negli anni ne segui­ran­no altre sem­pre più gran­di e com­ples­se, cioè una mac­chi­na uten­si­le a sta­zio­ni mul­ti­ple che auto­ma­tiz­za un inte­ro ciclo pro­dut­ti­vo (lavo­ra­zio­ni, tra­spor­to auto­ma­ti­co di un pez­zo da una sta­zio­ne all’altra, con­trol­li).[4]
Nel 1952, ini­zia la costru­zio­ne del­le mac­chi­ne auto­ma­ti­che per pic­co­le e medie pro­du­zio­ni pro­get­ta­te una per una secon­do le spe­ci­fi­che esi­gen­ze dell’utenza.[5]
Nel frat­tem­po si pas­sa dal­la glo­rio­sa ret­ti­fi­ca­tri­ce R3 all’intera gam­ma di pro­dot­ti R4che rag­giu­ge­rà nel tem­po ben sei model­li e che sarà anco­ra pro­dot­ta negli anni ‘60.[6]
La OMO rag­giun­ge negli anni ‘50 un alto livel­lo di spe­cia­liz­za­zio­ne anche nel­le fre­sa­tri­ci, dove alla sem­pre in pro­du­zio­ne FP2si aggiun­ge tut­ta una gam­ma di model­li e di varian­ti, pri­ma come mac­chi­ne a se stan­ti, poi sem­pre più inse­ri­te anche in linee auto­ma­ti­che di lavo­ra­zio­ne, cioè sul­le “trans­fer”.[7]
Nel 1953 vie­ne pro­dot­to il pan­to­gra­fo fotoe­let­tri­co MR3 desti­na­to all’industria tes­si­le per lo stam­pag­gio dei tes­su­ti.[8] Il mio ricor­do qui si fa vivo. Mio padre ne par­la­va mol­to, si trat­ta­va di un pro­get­to nuo­vo per la OMO. Ne ho avu­to una visio­ne diret­ta per­ché insie­me ai miei com­pa­gni di 5a ele­men­ta­re era­va­mo anda­ti a visi­ta­re la OMO su richie­sta del nostro mae­stro a mio padre. Anco­ra poco tem­po fa ne par­la­vo con un mio com­pa­gno di scuo­la, ed è sta­to pro­prio lui a ricor­dar­mi del­la visi­ta al repar­to, di cui mio padre era respon­sa­bi­le, dove il moti­vo di mag­gior inte­res­se era­no sta­ti quei cilin­dri, su cui veni­va­no inci­si da una mac­chi­na i dise­gni dei tes­su­ti, che mio padre ci ave­va illu­stra­to cat­tu­ran­do la nostra atten­zio­ne. Di quel­la visi­ta ne ho un ricor­do vivis­si­mo, non solo per­ché ero coc­co­la­to dagli ope­rai di mio padre e per il rul­lo inci­so con un trac­cia­to finis­si­mo, ma soprat­tut­to per l’intenso odo­re dell’olio del­le mac­chi­ne uten­si­li, indi­spen­sa­bi­le per la loro lubri­fi­ca­zio­ne, olio che ave­va impre­gna­to il pavi­men­to e il cui odo­re, per chi vi lavo­ra­va par­te indi­vi­si­bi­le dall’ambiente, mi è rima­sto per sem­pre nel­la mia memo­ria olfat­ti­va. Anni dopo rico­no­sce­vo anco­ra quell’odore, sep­pu­re appe­na per­cet­ti­bi­le, quan­do mi reca­vo nell’ex offi­ci­na H, non distan­te da dove c’era sta­to il repar­to di mio padre, dove per decen­ni vi ave­va­no lavo­ra­to i tor­ni automatici.
LA OMO VA A SAN BERNARDO E DIVENTA DIVISIONE MACCHINE UTENSILI
Nel 1956 la OMO si tra­sfe­ri­sce nel nuo­vo sta­bi­li­men­to di San Ber­nar­do, pro­get­ta­to da Eduar­do Vit­to­ria, all’estrema peri­fe­ria sud di Ivrea, carat­te­riz­za­to da ampie cam­pa­te, neces­sa­rie per ospi­ta­re la pro­du­zio­ne del­le sem­pre più volu­mi­no­se mac­chi­ne uten­si­li richie­ste dal mer­ca­to, le “trans­fer”. Mac­chi­ne che atti­ra­no l’attenzione anche dell’Unione Sovie­ti­ca e dei suoi pae­si satelliti.
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La OMO a San Bernardo
La OMO, fino ad allo­ra auto­ma, vie­ne inse­ri­ta nell’organizzazione pro­dut­ti­va Oli­vet­ti, come Divi­sio­ne Mac­chi­ne Uten­si­li.[9]
Così, nel 1960 la OMO, ora DMU, ma tut­ti con­ti­nua­no a chia­mar­la OMO, affron­ta la pro­du­zio­ne del­la più gran­de “trans­fer” fino ad allo­ra costrui­ta, com­mis­sio­na­ta dal­la fab­bri­ca di trat­to­ri ceco­slo­vac­ca ZKL di Brno. Qua­si “Un’officina in una mac­chi­na”, come Erman­no Fran­chet­to tito­la il suo arti­co­lo su «Noti­zie Oli­vet­ti».[10] La mac­chi­na ha 33 sta­zio­ni di lavo­ro per 170 ope­ra­zio­ni sul pez­zo, si svi­lup­pa lun­go una linea di 65 metri, è azio­na­ta da 183 moto­ri.[11] È così lun­ga che ini­zia nel repar­to di mio padre e fini­sce nel repar­to del suo col­le­ga Lui­gi Muzio. A che cosa ser­ve que­sto mostro mec­ca­ni­co? Ser­ve per lavo­ra­re il mono­bloc­co del moto­re dei trat­to­ri, un enor­me bloc­co d’acciaio, così mi spie­ga mio padre, quan­do mi por­ta a vede­re que­sta enor­me mac­chi­na, ma, per subi­to aggiun­ge­re, che secon­do lui sono mono­bloc­chi per i moto­ri dei car­rar­ma­ti. Sono gli anni del­la “guer­ra fredda”!
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La trans­fer per la fab­bri­ca di trat­to­ri ceco­slo­vac­ca ZKL, in fase di costruzione
La “trans­fer” è ulti­ma­ta nel­la pri­ma­ve­ra del 1961 e mio padre si reca a Brno in Ceco­slo­vac­chia (for­ma­ta dal­le attua­li Repub­bli­ca Slo­vac­ca e Ceca), per avviar­ne la mes­sa in ope­ra. Fini­ta la mac­chi­na per la Ceco­slo­vac­chia vie­ne mes­sa subi­to in pro­du­zio­ne un’altra “trans­fer”, con le stes­se carat­te­ri­sti­che, per l’Unione Sovie­ti­ca, che ver­rà con­se­gna­ta nel­la pri­ma­ve­ra del 1962. Anche que­sta vol­ta mio padre deve anda­re per avviar­ne l’istallazione, come atte­sta il suo pas­sa­por­to con l’estensione alla Rus­sia, ma poi non ci va, così fu feli­cis­si­mo che anni più tar­di ci andas­si io.
Tut­ta­via, nono­stan­te la pro­du­zio­ne di que­ste gran­di mac­chi­ne, gli uti­li sono ridot­ti. Con­fi­da­va l’ingegner Giu­lio Zanet­ti, diret­to­re pri­ma del­la OMO e poi del­la Divi­sio­ne Mac­chi­ne Uten­si­li, a mio padre che l’utile net­to era intor­no al 5%, aggiun­gen­do però che que­sta era una situa­zio­ne comu­ne a tut­to il mer­ca­to del­le mac­chi­ne uten­si­li. Un’inezia rispet­to agli uti­li dei pro­dot­ti per uffi­cio, ma for­se vale la pena di ricor­da­re che que­sti ulti­mi sono pro­dot­ti anche con le mac­chi­ne uten­si­li OMO.
Il peso per­cen­tua­le del fat­tu­ra­to ai clien­ti ester­ni è anch’esso limi­ta­to sul tota­le di quel­lo Olivetti:
Ripar­ti­zio­ne per­cen­tua­le del fat­tu­ra­to del­la OMO /Divisione Mac­chi­ne Uten­si­li a ter­zi su quel­lo del­la “Ing. C Oli­vet­ti & C., S.p.A.” [12]
1957 1958 1959 1960 1961 3,62% 3,1% 2,5% 1,9% 2,7%
Cer­to le per­cen­tua­li non fan­no giu­sti­zia del lavo­ro svol­to dal­la OMO per la ICO e dell’enorme pro­fes­sio­na­li­tà che c’è die­tro quei numeri.
Così Car­lo Guer­ci, inge­gne­re e diri­gen­te respon­sa­bi­le dei “pro­get­ti e rea­liz­za­zio­ne impian­ti elet­tri­ci”, ricor­da, in un arti­co­lo nel 2009, quel­la che lui con­ti­nua a chia­ma­re OMO, come anco­ra oggi tut­ti quel­li che vi han­no lavorato:
“Giun­si alla OMO nel 1953 […]. Tra­scor­si alla Oli­vet­ti anni mera­vi­glio­si, in un ambien­te avvin­cen­te e sti­mo­lan­te, pie­no di gra­ti­fi­ca­zio­ni per i risul­ta­ti con­se­gui­ti. Quan­te not­ti e festi­vi­tà tra­scor­se a rive­de­re i cal­co­li e a veri­fi­ca­re il fun­zio­na­men­to di quel­le mac­chi­ne per rispet­ta­re le date di con­se­gna o i tem­pi dell’esposizione alle fie­re in tut­ta l’Europa, ma che sod­di­sfa­zio­ne alla fine! […]. Con gli anni, si for­mò nel­la nostra divi­sio­ne un nucleo di per­so­ne sele­zio­na­te, dal­le offi­ci­ne agli uffi­ci. C’era un cli­ma spe­cia­le: era­va­mo un grup­po affia­ta­to, che lavo­ra­va con entu­sia­smo e che par­te­ci­pa­va alle vicen­de fami­lia­ri di ognu­no, tri­sti o lie­te, alle feste per ogni pre­mia­zio­ne […]. Ricor­do con nostal­gia l’ing. Giu­lio Zanet­ti, l’ing. Rober­to Gra­zio­si, l’ing. Gre­go­rio Sel­la, l’ing. Elio Pagel­la, l’ing. Delio Beret­ta e in ulti­mo l’ing. Mario Bene­det­ti, non­ché i pro­get­ti­sti signo­ri Sisto Ber­ta, Lui­gi Ber­to­li­no, Lui­gi Fer­ret­ti, Fran­co Rapet­ti, Miche­lan­ge­lo Rasoi­ra, Pie­tro Regis e le segre­ta­rie signo­re Cate­ri­na Fol­lis, Car­la Menal­do e Mari­sa Leo­na, pre­pa­ra­tis­si­me e zelan­ti col­la­bo­ra­tri­ci. E, infi­ne, i tec­ni­ci assai qua­li­fi­ca­ti del repar­to Espe­rien­ze come i signo­ri Lui­gi Fer­ra­ro ed Ezio Moli­nat­to e tan­ti altri nel­le varie offi­ci­ne, tut­ti spe­cia­liz­za­ti in gra­do di “leg­ge­re” un pro­get­to, rea­liz­zar­ne i par­ti­co­la­ri e mon­tar­li. Mi ven­go­no in men­te i signo­ri Mario Sil­mo, Lui­gi Muzio, Lui­gi Glau­da, Fio­ren­zo Gam­bro, Lui­gi Bron­zi­ni, Car­lo Cal­de­ra­ro, ognu­no respon­sa­bi­le del pro­prio repar­to e coor­di­na­ti dall’ing. Bru­no Gheb­ba­no, diret­to­re di pro­du­zio­ne. Con Que­sta equi­pe di spe­cia­li­sti ven­dem­mo mac­chi­ne spe­cia­li in tut­ta Euro­pa.”[13]
A que­sto pun­to alla mec­ca­ni­ca di pre­ci­sio­ne si aggiun­ge l’elettronica.
DA OMO A OCN (OLIVETTI CONTROLLO NUMERICO)
Nel 1957 Mario Tchou, che è a capo del­lo svi­lup­po del cal­co­la­to­re ELEA 9003, nel­la sua ricer­ca di siner­gie con la “mec­ca­ni­ca” Ivrea, intrav­ve­de la pos­si­bi­li­tà di col­la­bo­ra­zio­ne nel set­to­re del con­trol­lo nume­ri­co del­le mac­chi­ne uten­si­li pro­dot­te dal­la OMO.
Rac­con­ta Else­ri­no Piol[14] che un gior­no un polac­co esper­to del set­to­re dei cal­co­la­to­ri elet­tro­ni­ci, Jose­ph Elbling, va a Bor­go­lom­bar­do per incon­tra­re un suo ex-col­le­ga ingle­se, Mar­tin Fried­mann, ricer­ca­to­re come lui alla Fer­ran­ti, nota indu­stria elet­tro­ni­ca ingle­se. Nell’occasione cono­sce Tchou che gli pro­po­ne di lavo­ra­re con loro ai cal­co­la­to­ri, ma l’interesse di Elbling è mira­to al con­trol­lo nume­ri­co. Tchou con­sul­ta Rober­to Oli­vet­ti e insie­me deci­do­no di costi­tui­re un grup­po di ricer­ca sul con­trol­lo nume­ri­co e lo assu­mo­no.[15]
Dopo un paio d’anni, i pri­mi risul­ta­ti, come l’impegno che Elbling ha pre­so all’atto dell’assunzione,[16] esco­no, infat­ti, le pri­me mac­chi­ne con uni­tà di gover­no pun­to a pun­to, pro­dot­te dal­la OMO. Nel 1963, si arri­va poi alla pre­sen­ta­zio­ne, all’ottava espo­si­zio­ne euro­pea del­le mac­chi­ne uten­si­li di Mila­no e a Pari­gi, del­la pri­ma mac­chi­na uten­si­le con uni­ta di gover­no con­ti­nuo Oli­vet­ti, una fre­sa­tri­ce, la FP9CN.[17] Così descri­ve la mac­chi­na l’anonimo giornalista:
“È alta 5 metri, lun­ga 10, può esse­re con­trol­la­ta su tre assi […]. La carat­te­ri­sti­ca essen­zia­le di que­sta mac­chi­na con­si­ste nel coman­do, «gover­no», per mez­zo di un «cer­vel­lo» elet­tro­ni­co – anch’esso di nostra pro­du­zio­ne- per cui non è neces­sa­rio l’intervento diret­to di ope­ra­to­ri”.[18]
Si apre così un nuo­vo filo­ne di pro­du­zio­ne per la OMO, che ovvia­men­te avrà un ruo­lo impor­tan­te nel­le rela­zio­ni indu­stria­li anche con l’Unione Sovietica.
Nel 1967 la Oli­vet­ti deci­de di abban­do­na­re la pro­du­zio­ne del­le mac­chi­ne uten­si­li tra­di­zio­na­li del­la OMO, ceden­do­ne i dirit­ti di pro­du­zio­ne e di ven­di­ta alla SAIMP di Pado­va e alla Sant’Eustachio di Bre­scia, e di dedi­car­si uni­ca­men­te alle nuo­ve pro­du­zio­ni a con­trol­lo nume­ri­co.[19] Deci­sio­ne vis­su­ta con ama­rez­za dal­le mae­stran­ze, che vedo­no usci­re dall’Azienda il frut­to del loro lavo­ro e del­la loro espe­rien­za. A que­sta deci­sio­ne segui­rà nel 1973 la costi­tu­zio­ne del­la OCN.[20]
Mio padre era del pare­re che quel­lo fos­se sta­to un erro­re, per­ché di quel­le mac­chi­ne c’era anco­ra una note­vo­le richie­sta. Anni più tar­di l’Amministratore Dele­ga­to del­la OCN, Giu­sep­pe Calo­ge­ro, lo ha rico­no­sciu­to in un suo scrit­to, OCN- un’avventura indu­stria­le”,[21] con que­sto para­gra­fo mol­to chiaro:
“Non toc­ca a me dire se fu una deci­sio­ne giu­sta o sba­glia­ta, quel­lo che so è che è sem­pre mol­to rischio­so impo­sta­re una nuo­va impre­sa solo su un pro­dot­to mol­to inno­va­ti­vo e mai ven­du­to pri­ma, per­ciò anco­ra poco cono­sciu­to dal mer­ca­to di sboc­co, e che in più richie­de una cul­tu­ra nell’uso diver­sa da quel­la dei pro­dot­ti tra­di­zio­na­li. Se la vec­chia linea di pro­dot­ti fos­se sta­ta tenu­ta anco­ra un po’ in vita spin­gen­do sul­la sua ven­di­ta, for­se si sareb­be potu­to otte­ne­re un flus­so di cas­sa entran­te capa­ce di soste­ne­re, alme­no in par­te, lo svi­lup­po di mer­ca­to del­la nuo­va linea di pro­dot­ti a CN. Nel mix di pro­dot­ti di un’impresa quel­li vec­chi, che ven­do­no su mer­ca­ti vec­chi, sono con­si­de­ra­ti “cash cow”, ossia vac­che da mun­ge­re che “allat­ta­no” i pro­dot­ti nuo­vi che si ten­ta di ven­de­re sia sui mer­ca­ti vec­chi sia sui nuo­vi, nel sen­so che ser­vo­no a finan­zia­re il loro svi­lup­po. For­se per que­sto la OCN comin­ciò la sua sto­ria accu­mu­lan­do per­di­te, natu­ral­men­te sem­pre ripia­na­te dall’unico azio­ni­sta Oli­vet­ti, e que­sto per il mana­ge­ment non è mai un incen­ti­vo a far meglio.”
E con que­sto la vec­chia glo­rio­sa OMO, con le cui mac­chi­ne uten­si­li si era­no fat­te le mac­chi­ne per scri­ve­re e le mac­chi­ne da cal­co­lo Oli­vet­ti, è fini­ta nel dimen­ti­ca­to­io del­la storia.
[2] Ing. C. Oli­vet­ti & C., S.p.A., Oli­vet­ti 1908–1958, Ivrea 1958, p. 181.
[4] D. Gari­no, L’Olivetti e l’Olivettismo (1908–1960). Un esem­pla­re model­lo di svi­lup­po indu­stria­le, Tesi di lau­rea, A.A. 1980–81, Uni­ver­si­tà di Tori­no., pp. 384–385.
[5] M. Tro­va­ti, C’era una vol­ta la “OMO” la miti­ca Offi­ci­na Mec­ca­ni­ca Oli­vet­ti, in «Il Cana­ve­sa­no 2007», Ivrea 2007, p. 82.
[6] M. Val­li, Le ret­ti­fi­ca­tri­ci in ton­do Oli­vet­ti, Mila­no 1961, p. 2.
[7] R. Gra­zio­si, Le fre­sa­tri­ci di pro­du­zio­ne Oli­vet­ti, Mila­no 1961, p. 1.
[8] Ing. C. Oli­vet­ti & C., S.p.A., Oli­vet­ti 1908–1958, op. cit., p. 185.
[9] Ing. C. Oli­vet­ti & C., S.p.A., Oli­vet­ti 1908–1958, op. cit., p. 188.
[10] E. Fran­chet­to, Un’officina in una mac­chi­na, in «Noti­zie Oli­vet­ti», n. 71, apri­le 1961, pp. 61–63.
[11] Ibi­dem
[12] Le per­cen­tua­li sono trat­te dai fasci­co­li del­le Assem­blee Ordi­na­rie e Straor­di­na­rie del­la Socie­tà Olivetti.
[13] C. Guer­ci, La OMO nel rac­con­to di uno dei suoi pro­ta­go­ni­sti, in «Noti­zia­rio Spil­le d’Oro Oli­vet­ti», N. 2, apri­le 2009.
[14] Else­ri­no Piol ha ini­zia­to come respon­sa­bi­le com­mer­cia­le nel set­to­re elet­tro­ni­co del­la Oli­vet­ti, per poi diven­tar­ne vicepresidente.
[15] E. Piol, Il sogno di un Impre­sa, Mila­no 2005, p. 31.
[16] Ibi­dem, p. 32.
[17]“Gover­no” elet­tro­ni­co per mac­chi­ne uten­si­li, in «Noti­zie di fab­bri­ca», Anno V, n. 8, otto­bre 1963, p. 1; vedi anche: Ing. C. Oli­vet­ti & C., S.p.A., Pro­dot­ti Oli­vet­ti 1908–1978, s. l. 2–1959, p. 27.
[18] “Gover­no” elet­tro­ni­co per mac­chi­ne uten­si­li, in «Noti­zie di fab­bri­ca», op. cit., p. 1.
[19] F. Nova­ra, R. Roz­zi, R. Gar­ruc­cio (a cura di), Uomi­ni e lavo­ro alla Oli­vet­ti, Mila­no 2005, p. 622.
[20] Ibi­dem, p. 624.