La OMO una realtà importante, ormai dimenticata
di Giuseppe Silmo
La OMO (Officina Meccanica Olivetti), l’ultima ma la più amata creatura di Camillo, raggiunge, soprattutto nel dopoguerra, traguardi sempre più ambiziosi; tuttavia la pubblicistica e poi la storiografia Olivetti ne hanno parlato pochissimo e negli ultimi anni per nulla. Il tipo di prodotto stesso non si presta a essere pubblicizzato, non appassiona il grande pubblico. Ormai anche gli ultimi, pochissimi, testimoni stanno scomparendo. Pochi giorni fa, il 26 gennaio, l’AD della Olivetti Controllo Numerico che si è inserita sul sentiero tracciato dalla OMO, Giuseppe Calogero, ci ha lasciati a 95 anni.[1]
È ora quindi di scrivere nuovamente queste righe, che in parte avevo già scritto nel mio libro Olivetti. Una storia breve, alcuni anni fa, per tentare di mantenere vivo il ricordo di una realtà importante nella storia Olivetti e invitare altri a scriverne.
NASCE LA OMO IN VIA JERVIS
La OMO è nata per precisa volontà di Camilo Olivetti che abituato ad un’officina dove conosce tutti, perché li ha scelti lui uno per uno, conosce le loro storie e le loro attitudini e soprattutto è abituato a intervenire direttamente sui processi produttivi fin nei minimi dettagli. Al crescere dell’azienda che lui stesso ha portato alle dimensioni di un industria meccanica media, nel 1924 conta 400 persone, tra cui figurano anche ingegneri e tecnici qualificati, si rende conto che l’officina stava perdendo quella dimensione umana dell’azienda che rispondeva intimamente alla sua vocazione. Camillo è inoltre un progettista e un ricercatore che vuole vedere realizzare i propri progetti. Per cui vede un’unica strada: tornare alle origini. Così inizia una nuova sfida nel 1926, con un gruppetto di vecchi collaboratori fonda la OMO (Officina Meccanica Olivetti) dove poter fare le sue esperienze di progettazione.
Qui Camillo, oltre ad esserne il direttore e provvedere in prima persona all’assunzione dei dipendenti, tra cui nel 1932 mio padre Mario Silmo, progetta le macchine utensili che dovranno servire per la produzione di parti delle macchine per scrivere. Queste macchine fino ad allora sono state comprate in America e in Germania.
La OMO produrrà principalmente fresatrici, rettificatrici e trapani di alta qualità e precisione. Il prodotto rimasto nella mitologia OMO è il trapano verticale sensitivo TS prodotto in diverse versioni dal 1936. Uno di questi esemplari è stato posto al centro di una rotonda ad Ivrea in via Torino, a ricordare che la Olivetti non è stata solo “macchine per scrivere”.
Nel 1938, viene prodotta, su progetto di Camillo, la FP0, la prima fresatrice a pialla, particolarmente robusta e rigida, idonea per lavori pesanti nelle grandi produzioni. La OMO produce macchine utensili, sia per le esigenze produttive della fabbrica di macchine per scrivere, che da ora per distinguerla si chiamerà ICO (Ing. Camillo Olivetti), sia per il mercato. Nel1936, proprio per questa apertura sul mercato, l’officina acquisisce il carattere di struttura indipendente, ben distinta dagli altri settori dell’Olivetti. Nasce così un polo di eccellenza nel campo delle macchine utensili di estrema precisione, si raggiungono livelli di tolleranza di un micron (un millesimo di millimetro), che diventerà una delle aziende leader nel settore.
La OMO in via Jervis, anni ’50
Appena alla fine della guerra, nel 1946 la OMO presenta la rettificatrice universale automatica R2,[2] seguita dalla R3, considerata la macchina di maggior impegno di quel periodo, anche per l’originalità del progetto.[3]
La OMO trova, negli anni ’50 -’60 il suo momento di massimo splendore.
Alla fine degli anni ’40 la OMO è ormai cresciuta e affronta nel 1951 la costruzione della prima “transfer”, a cui negli anni ne seguiranno altre sempre più grandi e complesse, cioè una macchina utensile a stazioni multiple che automatizza un intero ciclo produttivo (lavorazioni, trasporto automatico di un pezzo da una stazione all’altra, controlli).[4]
Nel 1952, inizia la costruzione delle macchine automatiche per piccole e medie produzioni progettate una per una secondo le specifiche esigenze dell’utenza.[5]
Nel frattempo si passa dalla gloriosa rettificatrice R3 all’intera gamma di prodotti R4, che raggiugerà nel tempo ben sei modelli e che sarà ancora prodotta negli anni ‘60.[6]
La OMO raggiunge negli anni ‘50 un alto livello di specializzazione anche nelle fresatrici, dove alla sempre in produzione FP2, si aggiunge tutta una gamma di modelli e di varianti, prima come macchine a se stanti, poi sempre più inserite anche in linee automatiche di lavorazione, cioè sulle “transfer”.[7]
Nel 1953 viene prodotto il pantografo fotoelettrico MR3 destinato all’industria tessile per lo stampaggio dei tessuti.[8] Il mio ricordo qui si fa vivo. Mio padre ne parlava molto, si trattava di un progetto nuovo per la OMO. Ne ho avuto una visione diretta perché insieme ai miei compagni di 5a elementare eravamo andati a visitare la OMO su richiesta del nostro maestro a mio padre. Ancora poco tempo fa ne parlavo con un mio compagno di scuola, ed è stato proprio lui a ricordarmi della visita al reparto, di cui mio padre era responsabile, dove il motivo di maggior interesse erano stati quei cilindri, su cui venivano incisi da una macchina i disegni dei tessuti, che mio padre ci aveva illustrato catturando la nostra attenzione. Di quella visita ne ho un ricordo vivissimo, non solo perché ero coccolato dagli operai di mio padre e per il rullo inciso con un tracciato finissimo, ma soprattutto per l’intenso odore dell’olio delle macchine utensili, indispensabile per la loro lubrificazione, olio che aveva impregnato il pavimento e il cui odore, per chi vi lavorava parte indivisibile dall’ambiente, mi è rimasto per sempre nella mia memoria olfattiva. Anni dopo riconoscevo ancora quell’odore, seppure appena percettibile, quando mi recavo nell’ex officina H, non distante da dove c’era stato il reparto di mio padre, dove per decenni vi avevano lavorato i torni automatici.
Alla fine degli anni ’40 la OMO è ormai cresciuta e affronta nel 1951 la costruzione della prima “transfer”, a cui negli anni ne seguiranno altre sempre più grandi e complesse, cioè una macchina utensile a stazioni multiple che automatizza un intero ciclo produttivo (lavorazioni, trasporto automatico di un pezzo da una stazione all’altra, controlli).[4]
Nel 1952, inizia la costruzione delle macchine automatiche per piccole e medie produzioni progettate una per una secondo le specifiche esigenze dell’utenza.[5]
Nel frattempo si passa dalla gloriosa rettificatrice R3 all’intera gamma di prodotti R4, che raggiugerà nel tempo ben sei modelli e che sarà ancora prodotta negli anni ‘60.[6]
La OMO raggiunge negli anni ‘50 un alto livello di specializzazione anche nelle fresatrici, dove alla sempre in produzione FP2, si aggiunge tutta una gamma di modelli e di varianti, prima come macchine a se stanti, poi sempre più inserite anche in linee automatiche di lavorazione, cioè sulle “transfer”.[7]
Nel 1953 viene prodotto il pantografo fotoelettrico MR3 destinato all’industria tessile per lo stampaggio dei tessuti.[8] Il mio ricordo qui si fa vivo. Mio padre ne parlava molto, si trattava di un progetto nuovo per la OMO. Ne ho avuto una visione diretta perché insieme ai miei compagni di 5a elementare eravamo andati a visitare la OMO su richiesta del nostro maestro a mio padre. Ancora poco tempo fa ne parlavo con un mio compagno di scuola, ed è stato proprio lui a ricordarmi della visita al reparto, di cui mio padre era responsabile, dove il motivo di maggior interesse erano stati quei cilindri, su cui venivano incisi da una macchina i disegni dei tessuti, che mio padre ci aveva illustrato catturando la nostra attenzione. Di quella visita ne ho un ricordo vivissimo, non solo perché ero coccolato dagli operai di mio padre e per il rullo inciso con un tracciato finissimo, ma soprattutto per l’intenso odore dell’olio delle macchine utensili, indispensabile per la loro lubrificazione, olio che aveva impregnato il pavimento e il cui odore, per chi vi lavorava parte indivisibile dall’ambiente, mi è rimasto per sempre nella mia memoria olfattiva. Anni dopo riconoscevo ancora quell’odore, seppure appena percettibile, quando mi recavo nell’ex officina H, non distante da dove c’era stato il reparto di mio padre, dove per decenni vi avevano lavorato i torni automatici.
LA OMO VA A SAN BERNARDO E DIVENTA DIVISIONE MACCHINE UTENSILI
Nel 1956 la OMO si trasferisce nel nuovo stabilimento di San Bernardo, progettato da Eduardo Vittoria, all’estrema periferia sud di Ivrea, caratterizzato da ampie campate, necessarie per ospitare la produzione delle sempre più voluminose macchine utensili richieste dal mercato, le “transfer”. Macchine che attirano l’attenzione anche dell’Unione Sovietica e dei suoi paesi satelliti.
La OMO a San Bernardo
La OMO, fino ad allora automa, viene inserita nell’organizzazione produttiva Olivetti, come Divisione Macchine Utensili.[9]
Così, nel 1960 la OMO, ora DMU, ma tutti continuano a chiamarla OMO, affronta la produzione della più grande “transfer” fino ad allora costruita, commissionata dalla fabbrica di trattori cecoslovacca ZKL di Brno. Quasi “Un’officina in una macchina”, come Ermanno Franchetto titola il suo articolo su «Notizie Olivetti».[10] La macchina ha 33 stazioni di lavoro per 170 operazioni sul pezzo, si sviluppa lungo una linea di 65 metri, è azionata da 183 motori.[11] È così lunga che inizia nel reparto di mio padre e finisce nel reparto del suo collega Luigi Muzio. A che cosa serve questo mostro meccanico? Serve per lavorare il monoblocco del motore dei trattori, un enorme blocco d’acciaio, così mi spiega mio padre, quando mi porta a vedere questa enorme macchina, ma, per subito aggiungere, che secondo lui sono monoblocchi per i motori dei carrarmati. Sono gli anni della “guerra fredda”!
Così, nel 1960 la OMO, ora DMU, ma tutti continuano a chiamarla OMO, affronta la produzione della più grande “transfer” fino ad allora costruita, commissionata dalla fabbrica di trattori cecoslovacca ZKL di Brno. Quasi “Un’officina in una macchina”, come Ermanno Franchetto titola il suo articolo su «Notizie Olivetti».[10] La macchina ha 33 stazioni di lavoro per 170 operazioni sul pezzo, si sviluppa lungo una linea di 65 metri, è azionata da 183 motori.[11] È così lunga che inizia nel reparto di mio padre e finisce nel reparto del suo collega Luigi Muzio. A che cosa serve questo mostro meccanico? Serve per lavorare il monoblocco del motore dei trattori, un enorme blocco d’acciaio, così mi spiega mio padre, quando mi porta a vedere questa enorme macchina, ma, per subito aggiungere, che secondo lui sono monoblocchi per i motori dei carrarmati. Sono gli anni della “guerra fredda”!
La transfer per la fabbrica di trattori cecoslovacca ZKL, in fase di costruzione
La “transfer” è ultimata nella primavera del 1961 e mio padre si reca a Brno in Cecoslovacchia (formata dalle attuali Repubblica Slovacca e Ceca), per avviarne la messa in opera. Finita la macchina per la Cecoslovacchia viene messa subito in produzione un’altra “transfer”, con le stesse caratteristiche, per l’Unione Sovietica, che verrà consegnata nella primavera del 1962. Anche questa volta mio padre deve andare per avviarne l’istallazione, come attesta il suo passaporto con l’estensione alla Russia, ma poi non ci va, così fu felicissimo che anni più tardi ci andassi io.
Tuttavia, nonostante la produzione di queste grandi macchine, gli utili sono ridotti. Confidava l’ingegner Giulio Zanetti, direttore prima della OMO e poi della Divisione Macchine Utensili, a mio padre che l’utile netto era intorno al 5%, aggiungendo però che questa era una situazione comune a tutto il mercato delle macchine utensili. Un’inezia rispetto agli utili dei prodotti per ufficio, ma forse vale la pena di ricordare che questi ultimi sono prodotti anche con le macchine utensili OMO.
Il peso percentuale del fatturato ai clienti esterni è anch’esso limitato sul totale di quello Olivetti:
Tuttavia, nonostante la produzione di queste grandi macchine, gli utili sono ridotti. Confidava l’ingegner Giulio Zanetti, direttore prima della OMO e poi della Divisione Macchine Utensili, a mio padre che l’utile netto era intorno al 5%, aggiungendo però che questa era una situazione comune a tutto il mercato delle macchine utensili. Un’inezia rispetto agli utili dei prodotti per ufficio, ma forse vale la pena di ricordare che questi ultimi sono prodotti anche con le macchine utensili OMO.
Il peso percentuale del fatturato ai clienti esterni è anch’esso limitato sul totale di quello Olivetti:
Ripartizione percentuale del fatturato della OMO /Divisione Macchine Utensili a terzi su quello della “Ing. C Olivetti & C., S.p.A.” [12]
1957 1958 1959 1960 1961 3,62% 3,1% 2,5% 1,9% 2,7%
Certo le percentuali non fanno giustizia del lavoro svolto dalla OMO per la ICO e dell’enorme professionalità che c’è dietro quei numeri.
Così Carlo Guerci, ingegnere e dirigente responsabile dei “progetti e realizzazione impianti elettrici”, ricorda, in un articolo nel 2009, quella che lui continua a chiamare OMO, come ancora oggi tutti quelli che vi hanno lavorato:
“Giunsi alla OMO nel 1953 […]. Trascorsi alla Olivetti anni meravigliosi, in un ambiente avvincente e stimolante, pieno di gratificazioni per i risultati conseguiti. Quante notti e festività trascorse a rivedere i calcoli e a verificare il funzionamento di quelle macchine per rispettare le date di consegna o i tempi dell’esposizione alle fiere in tutta l’Europa, ma che soddisfazione alla fine! […]. Con gli anni, si formò nella nostra divisione un nucleo di persone selezionate, dalle officine agli uffici. C’era un clima speciale: eravamo un gruppo affiatato, che lavorava con entusiasmo e che partecipava alle vicende familiari di ognuno, tristi o liete, alle feste per ogni premiazione […]. Ricordo con nostalgia l’ing. Giulio Zanetti, l’ing. Roberto Graziosi, l’ing. Gregorio Sella, l’ing. Elio Pagella, l’ing. Delio Beretta e in ultimo l’ing. Mario Benedetti, nonché i progettisti signori Sisto Berta, Luigi Bertolino, Luigi Ferretti, Franco Rapetti, Michelangelo Rasoira, Pietro Regis e le segretarie signore Caterina Follis, Carla Menaldo e Marisa Leona, preparatissime e zelanti collaboratrici. E, infine, i tecnici assai qualificati del reparto Esperienze come i signori Luigi Ferraro ed Ezio Molinatto e tanti altri nelle varie officine, tutti specializzati in grado di “leggere” un progetto, realizzarne i particolari e montarli. Mi vengono in mente i signori Mario Silmo, Luigi Muzio, Luigi Glauda, Fiorenzo Gambro, Luigi Bronzini, Carlo Calderaro, ognuno responsabile del proprio reparto e coordinati dall’ing. Bruno Ghebbano, direttore di produzione. Con Questa equipe di specialisti vendemmo macchine speciali in tutta Europa.”[13]
“Giunsi alla OMO nel 1953 […]. Trascorsi alla Olivetti anni meravigliosi, in un ambiente avvincente e stimolante, pieno di gratificazioni per i risultati conseguiti. Quante notti e festività trascorse a rivedere i calcoli e a verificare il funzionamento di quelle macchine per rispettare le date di consegna o i tempi dell’esposizione alle fiere in tutta l’Europa, ma che soddisfazione alla fine! […]. Con gli anni, si formò nella nostra divisione un nucleo di persone selezionate, dalle officine agli uffici. C’era un clima speciale: eravamo un gruppo affiatato, che lavorava con entusiasmo e che partecipava alle vicende familiari di ognuno, tristi o liete, alle feste per ogni premiazione […]. Ricordo con nostalgia l’ing. Giulio Zanetti, l’ing. Roberto Graziosi, l’ing. Gregorio Sella, l’ing. Elio Pagella, l’ing. Delio Beretta e in ultimo l’ing. Mario Benedetti, nonché i progettisti signori Sisto Berta, Luigi Bertolino, Luigi Ferretti, Franco Rapetti, Michelangelo Rasoira, Pietro Regis e le segretarie signore Caterina Follis, Carla Menaldo e Marisa Leona, preparatissime e zelanti collaboratrici. E, infine, i tecnici assai qualificati del reparto Esperienze come i signori Luigi Ferraro ed Ezio Molinatto e tanti altri nelle varie officine, tutti specializzati in grado di “leggere” un progetto, realizzarne i particolari e montarli. Mi vengono in mente i signori Mario Silmo, Luigi Muzio, Luigi Glauda, Fiorenzo Gambro, Luigi Bronzini, Carlo Calderaro, ognuno responsabile del proprio reparto e coordinati dall’ing. Bruno Ghebbano, direttore di produzione. Con Questa equipe di specialisti vendemmo macchine speciali in tutta Europa.”[13]
A questo punto alla meccanica di precisione si aggiunge l’elettronica.
DA OMO A OCN (OLIVETTI CONTROLLO NUMERICO)
Nel 1957 Mario Tchou, che è a capo dello sviluppo del calcolatore ELEA 9003, nella sua ricerca di sinergie con la “meccanica” Ivrea, intravvede la possibilità di collaborazione nel settore del controllo numerico delle macchine utensili prodotte dalla OMO.
Racconta Elserino Piol[14] che un giorno un polacco esperto del settore dei calcolatori elettronici, Joseph Elbling, va a Borgolombardo per incontrare un suo ex-collega inglese, Martin Friedmann, ricercatore come lui alla Ferranti, nota industria elettronica inglese. Nell’occasione conosce Tchou che gli propone di lavorare con loro ai calcolatori, ma l’interesse di Elbling è mirato al controllo numerico. Tchou consulta Roberto Olivetti e insieme decidono di costituire un gruppo di ricerca sul controllo numerico e lo assumono.[15]
Dopo un paio d’anni, i primi risultati, come l’impegno che Elbling ha preso all’atto dell’assunzione,[16] escono, infatti, le prime macchine con unità di governo punto a punto, prodotte dalla OMO. Nel 1963, si arriva poi alla presentazione, all’ottava esposizione europea delle macchine utensili di Milano e a Parigi, della prima macchina utensile con unita di governo continuo Olivetti, una fresatrice, la FP9CN.[17] Così descrive la macchina l’anonimo giornalista:
“È alta 5 metri, lunga 10, può essere controllata su tre assi […]. La caratteristica essenziale di questa macchina consiste nel comando, «governo», per mezzo di un «cervello» elettronico – anch’esso di nostra produzione- per cui non è necessario l’intervento diretto di operatori”.[18]
Racconta Elserino Piol[14] che un giorno un polacco esperto del settore dei calcolatori elettronici, Joseph Elbling, va a Borgolombardo per incontrare un suo ex-collega inglese, Martin Friedmann, ricercatore come lui alla Ferranti, nota industria elettronica inglese. Nell’occasione conosce Tchou che gli propone di lavorare con loro ai calcolatori, ma l’interesse di Elbling è mirato al controllo numerico. Tchou consulta Roberto Olivetti e insieme decidono di costituire un gruppo di ricerca sul controllo numerico e lo assumono.[15]
Dopo un paio d’anni, i primi risultati, come l’impegno che Elbling ha preso all’atto dell’assunzione,[16] escono, infatti, le prime macchine con unità di governo punto a punto, prodotte dalla OMO. Nel 1963, si arriva poi alla presentazione, all’ottava esposizione europea delle macchine utensili di Milano e a Parigi, della prima macchina utensile con unita di governo continuo Olivetti, una fresatrice, la FP9CN.[17] Così descrive la macchina l’anonimo giornalista:
“È alta 5 metri, lunga 10, può essere controllata su tre assi […]. La caratteristica essenziale di questa macchina consiste nel comando, «governo», per mezzo di un «cervello» elettronico – anch’esso di nostra produzione- per cui non è necessario l’intervento diretto di operatori”.[18]
Si apre così un nuovo filone di produzione per la OMO, che ovviamente avrà un ruolo importante nelle relazioni industriali anche con l’Unione Sovietica.
Nel 1967 la Olivetti decide di abbandonare la produzione delle macchine utensili tradizionali della OMO, cedendone i diritti di produzione e di vendita alla SAIMP di Padova e alla Sant’Eustachio di Brescia, e di dedicarsi unicamente alle nuove produzioni a controllo numerico.[19] Decisione vissuta con amarezza dalle maestranze, che vedono uscire dall’Azienda il frutto del loro lavoro e della loro esperienza. A questa decisione seguirà nel 1973 la costituzione della OCN.[20]
Mio padre era del parere che quello fosse stato un errore, perché di quelle macchine c’era ancora una notevole richiesta. Anni più tardi l’Amministratore Delegato della OCN, Giuseppe Calogero, lo ha riconosciuto in un suo scritto, “OCN- un’avventura industriale”,[21] con questo paragrafo molto chiaro:
“Non tocca a me dire se fu una decisione giusta o sbagliata, quello che so è che è sempre molto rischioso impostare una nuova impresa solo su un prodotto molto innovativo e mai venduto prima, perciò ancora poco conosciuto dal mercato di sbocco, e che in più richiede una cultura nell’uso diversa da quella dei prodotti tradizionali. Se la vecchia linea di prodotti fosse stata tenuta ancora un po’ in vita spingendo sulla sua vendita, forse si sarebbe potuto ottenere un flusso di cassa entrante capace di sostenere, almeno in parte, lo sviluppo di mercato della nuova linea di prodotti a CN. Nel mix di prodotti di un’impresa quelli vecchi, che vendono su mercati vecchi, sono considerati “cash cow”, ossia vacche da mungere che “allattano” i prodotti nuovi che si tenta di vendere sia sui mercati vecchi sia sui nuovi, nel senso che servono a finanziare il loro sviluppo. Forse per questo la OCN cominciò la sua storia accumulando perdite, naturalmente sempre ripianate dall’unico azionista Olivetti, e questo per il management non è mai un incentivo a far meglio.”
“Non tocca a me dire se fu una decisione giusta o sbagliata, quello che so è che è sempre molto rischioso impostare una nuova impresa solo su un prodotto molto innovativo e mai venduto prima, perciò ancora poco conosciuto dal mercato di sbocco, e che in più richiede una cultura nell’uso diversa da quella dei prodotti tradizionali. Se la vecchia linea di prodotti fosse stata tenuta ancora un po’ in vita spingendo sulla sua vendita, forse si sarebbe potuto ottenere un flusso di cassa entrante capace di sostenere, almeno in parte, lo sviluppo di mercato della nuova linea di prodotti a CN. Nel mix di prodotti di un’impresa quelli vecchi, che vendono su mercati vecchi, sono considerati “cash cow”, ossia vacche da mungere che “allattano” i prodotti nuovi che si tenta di vendere sia sui mercati vecchi sia sui nuovi, nel senso che servono a finanziare il loro sviluppo. Forse per questo la OCN cominciò la sua storia accumulando perdite, naturalmente sempre ripianate dall’unico azionista Olivetti, e questo per il management non è mai un incentivo a far meglio.”
E con questo la vecchia gloriosa OMO, con le cui macchine utensili si erano fatte le macchine per scrivere e le macchine da calcolo Olivetti, è finita nel dimenticatoio della storia.
[2] Ing. C. Olivetti & C., S.p.A., Olivetti 1908–1958, Ivrea 1958, p. 181.
[4] D. Garino, L’Olivetti e l’Olivettismo (1908–1960). Un esemplare modello di sviluppo industriale, Tesi di laurea, A.A. 1980–81, Università di Torino., pp. 384–385.
[5] M. Trovati, C’era una volta la “OMO” la mitica Officina Meccanica Olivetti, in «Il Canavesano 2007», Ivrea 2007, p. 82.
[6] M. Valli, Le rettificatrici in tondo Olivetti, Milano 1961, p. 2.
[7] R. Graziosi, Le fresatrici di produzione Olivetti, Milano 1961, p. 1.
[8] Ing. C. Olivetti & C., S.p.A., Olivetti 1908–1958, op. cit., p. 185.
[9] Ing. C. Olivetti & C., S.p.A., Olivetti 1908–1958, op. cit., p. 188.
[10] E. Franchetto, Un’officina in una macchina, in «Notizie Olivetti», n. 71, aprile 1961, pp. 61–63.
[11] Ibidem
[12] Le percentuali sono tratte dai fascicoli delle Assemblee Ordinarie e Straordinarie della Società Olivetti.
[13] C. Guerci, La OMO nel racconto di uno dei suoi protagonisti, in «Notiziario Spille d’Oro Olivetti», N. 2, aprile 2009.
[14] Elserino Piol ha iniziato come responsabile commerciale nel settore elettronico della Olivetti, per poi diventarne vicepresidente.
[15] E. Piol, Il sogno di un Impresa, Milano 2005, p. 31.
[16] Ibidem, p. 32.
[17]“Governo” elettronico per macchine utensili, in «Notizie di fabbrica», Anno V, n. 8, ottobre 1963, p. 1; vedi anche: Ing. C. Olivetti & C., S.p.A., Prodotti Olivetti 1908–1978, s. l. 2–1959, p. 27.
[18] “Governo” elettronico per macchine utensili, in «Notizie di fabbrica», op. cit., p. 1.
[19] F. Novara, R. Rozzi, R. Garruccio (a cura di), Uomini e lavoro alla Olivetti, Milano 2005, p. 622.
[20] Ibidem, p. 624.