La fabbrica triste

Ottiero Ottieri con un capo offincina nello stabilimento Olivetti di Pozzuoli

Ottie­ro Ottie­ri con un capo offi­ci­na  nel rte­par­to pres­se del­lo sta­bi­li­men­to Oli­vet­ti di Poz­zuo­li 1958

Intro­du­zio­ne alla ristam­pa del libro “Tem­pi Stret­ti” di Giu­sep­pe Lupo

Nel 1957, quan­do vede la luce Tem­pi stret­ti nel­la col­le­zio­ne dei «Get­to­ni» einau­dia­ni, la sta­gio­ne d’o­ro del­la nar­ra­ti­va indu­stria­le è appe­na agli esor­di, ma sem­bra già desti­na­ta a dare frut­ti impor­tan­ti. In quel­lo stes­so anno, infat­ti, ven­go­no pub­bli­ca­ti due libri di scrit­to­ri-ope­rai (Gymkhana–Cross di Lui­gi Davi e Il bar­dot­to di Vale­rio Ber­ti­ni), il rac­con­to auto­bio­gra­fi­co di un intel­let­tua­le di pro­vin­cia fago­ci­ta­to dal­l’in­du­stria edi­to­ria­le (L’in­te­gra­zio­ne di Lucia­no Bian­ciar­di), un’in­chie­sta socio­lo­gi­ca (Ope­rai del Nord di Edio Val­li­ni). Ai let­te­ra­ti non sfug­ge il ruo­lo cru­cia­le che le fab­bri­che stan­no svol­gen­do in un’e­po­ca deli­ca­ta com’è quel­la del­la rico­stru­zio­ne e, sia quan­do assu­mo­no una posi­zio­ne di faci­le entu­sia­smo nei con­fron­ti del­le pro­ble­ma­ti­che azien­da­li, sia quan­do si attar­da­no in un atteg­gia­men­to di scet­ti­ci­smo ideo­lo­gi­co ver­so i feno­me­ni del capi­ta­li­smo, pren­do­no comun­que coscien­za che l’I­ta­lia repub­bli­ca­na si è lascia­ta alle spal­le la nozio­ne di Pae­se contadino.
Che insie­me al lavo­ro alle cate­ne di mon­tag­gio si vada dif­fon­den­do anche una let­te­ra­tu­ra ispi­ra­ta alle mac­chi­ne, alle peri­fe­rie urba­ne, ai tur­ni in offi­ci­na, è un ele­men­to ormai con­so­li­da­to. Non altret­tan­to chia­ra, inve­ce, è la per­ce­zio­ne che di que­sti “tem­pi nuo­vi” gli scrit­to­ri matu­ra­no. Non a caso Elio Vit­to­ri­ni, nel­l’e­di­to­ria­le che inau­gu­ra «mena­bò 4» (1961), par­le­rà di “mon­do impos­se­du­to”: una defi­ni­zio­ne che ren­de bene l’at­teg­gia­men­to di chi non ha anco­ra affer­ra­to le coor­di­na­te inter­pre­ta­ti­ve ed è rima­sto in un lim­bo piut­to­sto ambi­guo e inde­ter­mi­na­to, al di qua del­le tra­sfor­ma­zio­ni antro­po­lo­gi­che, a cui deve obbe­di­re l’e­ser­ci­zio del­la let­te­ra­tu­ra quan­do si tro­va alla pre­sen­za di ele­men­ti dì rot­tu­ra come l’av­ven­to e il defi­ni­ti­vo con­so­li­da­men­to del­la civil­tà industriale.

Non è faci­le accer­ta­re se nel seve­ro giu­di­zio espres­so dal diret­to­re del «mena­bò» sia com­pre­so anche Tem­pi stret­ti (nel­l’ar­ti­co­lo infat­ti non si fa cen­no a nes­su­na ope­ra pub­bli­ca­ta pri­ma del 1961), ma è cer­to che i mate­ria­li epi­sto­la­ri, con­te­nu­ti nel­la Sto­ria dei «Get­to­ni» di Elio Vit­to­ri­ni (2007), obbli­ga­no a una rifles­sio­ne. Pri­ma di tut­to c’è da sot­to­li­nea­re che il roman­zo di Otti­cri, pur essen­do il frut­to di un intel­let­tua­le lega­to da vin­co­li pro­fes­sio­na­li alle mae­stran­ze di Ivrea, rima­ne fuo­ri dal­la cosid­det­ta nar­ra­ti­va oli­vet­tia­na: sia di quel­la che eleg­ge a per­so­nag­gio l’in­ge­gne­re Adria­no (Les­si­co fami­glia­re di Nata­lia Ginz­burg o Il con­te di Gior­gio Soa­vi), sia di quel­la pro­dot­ta da scrit­to­ri che sono sta­ti par­te atti­va nel pro­get­to del­la fab­bri­ca-comu­ni­tà, innal­zan­do a mate­ria d’in­ven­zio­ne let­te­ra­ria l’e­spe­rien­za pres­so gli sta­bi­li­men­ti del Cana­ve­se e di Poz­zuo­li (come Don­na­rum­ma all’assalto del­lo stes­so Ottie­ri, Memo­ria­le di Pao­lo Vol­po­ni, Il con­gres­so di Libe­ro Bigia­ret­ti, L’a­mo­re mio ita­lia­no di Gian­car­lo Buz­zi). «L’a­zien­da di cui si par­la nel libro non è la Oli­vet­ti» – con­fes­sa Ottie­ri a Cal­vi­no il 21 apri­le 1956, invian­do­gli il testo –, «ma io mi sono ser­vi­to di varie cose osser­va­te alla Oli­vet­ti per rife­rir­le a un ipo­te­ti­co mono­po­lio mila­ne­se. Per­ciò, qua­lo­ra doves­si pub­bli­ca­re que­sto roman­zo, dovrei pri­ma chia­ri­re alcu­ne cose con l’a­zien­da che ades­so mi dà da vive­re, mate­rial­men­te e moralmente».
La pre­ci­sa­zio­ne, se da una par­te esclu­de ogni tipo di inter­fe­ren­za con l’in­du­stria epo­re­die­se, dal­l’al­tra indi­ca un pre­ci­so atteg­gia­men­to: l’a­ver tra­sfe­ri­to nel­le fab­bri­che del­la cin­tu­ra mila­ne­se (nel­la Sesto San Gio­van­ni in cui prin­ci­pal­men­te Ottie­ri ambien­ta Tem­pi stret­ti) una serie di ele­men­ti inter­cet­ta­ti a Ivrea. Per puro gio­co di azzar­do, ver­reb­be da segna­la­re alme­no due espres­sio­ni pre­sen­ti nel testo: «poe­ti del­l’in­du­stria» o «arti­gia­ni del­l’in­du­stria», che ine­qui­vo­ca­bil­men­te allu­do­no all’am­bi­zio­ne di coniu­ga­re pro­du­zio­ne seria­le e requi­si­ti arti­sti­ci, più in gene­ra­le rin­via­no a quel­l’a­lo­ne di crea­ti­vi­tà, a cui si ispi­ra la sta­gio­ne del­l’o­li­vet­ti­smo. 1\‘la non è esclu­so che die­tro la festa del ven­ti­cin­quen­na­le del­l’a­zien­da Ales­san­dri, con rela­ti­va distri­bu­zio­ne del lapis d’o­ro ai dipen­den­ti (rac­con­ta­ta nel­le pri­me pagi­ne del roman­zo), sia sot­te­so il ricor­do di un’al­tra ceri­mo­nia: la con­se­gna del­le Spil­le d’O­ro ai lavo­ra­to­ri di Ivrea, avve­nu­ta nel dicem­bre del 1954, di cui rima­ne memo­ria in uno dei capi­to­li del sag­gio cit­tà del­l’uo­mo (1960) di Adria­no Olivetti.

Non è det­to che tra le «cose osser­va­te alla Oli­vet­ti», come sug­ge­ri­sce Ottie­ri a Cal­vi­no, vada neces­sa­ria­men­te inclu­sa que­sta ceri­mo­nia. Tut­ta­via le fab­bri­che di cui si par­la in Tem­pi stret­ti denun­cia­no atmo­sfe­re tipi­che di un atteg­gia­men­to pater­na­li­sti­co («la nostra azien­da è una gran­de fami­glia. Io non sono che la gui­da di essa, quin­di, se per­met­te­te, sono un po’ il vostro padre»), che va con­si­de­ra­ta una del­le costan­ti del model­lo azien­da­le assai in voga nel­l’I­ta­lia degli anni Cin­quan­ta, a cui natu­ral­men­te non si sot­trae nem­me­no l’im­pre­sa pro­dut­tri­ce di mac­chi­ne da scri­ve­re. Rin­trac­cia­re in que­sta sede i pos­si­bi­li lega­mi tra Ivrea e Sesto San Gio­van­ni sareb­be un’o­pe­ra­zio­ne infrut­tuo­sa e for­se inu­ti­le. Gli ele­men­ti di discon­ti­nui­tà sono più nume­ro­si rispet­to alle inter­fe­ren­ze, per cui è dav­ve­ro impos­si­bi­le rico­no­sce­re nel­le offi­ci­ne del­l’­hin­ter­land mila­ne­se gli aspet­ti pecu­lia­ri del­la fab­bri­ca oli­vet­tia­na; soprat­tut­to è diver­so il pun­to di vista con cui lo stes­so Ottie­ri, due anni dopo l’u­sci­ta di Tem­pi stret­ti, rap­pre­sen­te­rà gli sta­bi­li­men­ti di Poz­zuo­li median­te l’i­co­na del luo­go di bel­lez­ze e di mera­vi­glie, tra­sfi­gu­ran­do­li cioè a castel­lo incan­ta­to, a pic­co­lo giar­di­no di eden. Insom­ma, men­tre gli aspi­ran­ti ope­rai di Don­na­rum­ma all’as­sal­to (1959) desi­de­re­ran­no con­di­vi­de­re il pro­get­to oli­vet­tia­no tan­to da insce­na­re vere e pro­prie for­me car­ne­va­le­sche di cap­ta­tio bene­vo­len­tiae nei con­fron­ti del respon­sa­bi­le del­la sele­zio­ne del per­so­na­le, in Tem­pi stret­ti pre­va­le un sen­so di mono­to­nia e di ripe­ti­ti­vi­tà, che allon­ta­na dal lavo­ro gli uomi­ni anzi­ché avvi­ci­nar­li: «Da immo­bi­le che era un momen­to pri­ma, l’of­fi­ci­na bat­te­va i suoi milio­ni di col­pi rego­la­ri, rin­tro­na­va, spin­gen­do tut­ti, fin­ché il fra­go­re si impa­sta­va e pre­me­va le orec­chie, per­si­no gli occhi del­la soli­ta mas­sa pesan­te. Ini­zia­va il lun­go pome­rig­gio, la metà più dura del­la gior­na­ta, sopra l’al­ta cur­va del­la fatica».

Dif­fi­ci­le dire che Anto­nio Don­na­rum­ma, se fos­se sta­to assun­to, sareb­be rima­sto immu­ne dal­le dege­ne­ra­zio­ni che col­pi­ran­no Albi­no Salug­gia (il pro­ta­go­ni­sta di Memo­ria­le di Vol­po­ni) o la stes­sa Emma di Tem­pi stret­ti, insi­nuan­do addi­rit­tu­ra in lei l’i­dea del sui­ci­dio. E sicu­ro però che in Don­na­rum­ma agi­sce con for­za la voca­zio­ne al lavo­ro manua­le esat­ta­men­te al con­tra­rio rispet­to alle tute blu di Sesto San Gio­van­ni, che inve­ce nutro­no sen­ti­men­ti di repul­sio­ne, se non di odio, ver­so la vita d’of­fi­ci­na. Più che appa­ga­re il biso­gno di moder­ni­tà, il rit­mo for­sen­na­to del­le mac­chi­ne, la sover­chian­te fati­ca, il fra­stuo­no asfis­sian­te che si per­ce­pi­sce sul­lo fon­do di Tem­pi stret­ti, pren­do­no di gran lun­ga il soprav­ven­to sugli svi­lup­pi del rac­con­to e la sen­sa­zio­ne di una squal­li­da quo­ti­dia­ni­tà, la con­di­zio­ne infe­li­ce dei lavo­ra­to­ri sot­to­mes­si alle dure leg­gi dei cro­no­me­tri­sti, for­ni­sco­no un’i­dea elo­quen­te di quel sen­ti­men­to malin­co­ni­co e inco­lo­re, a cui allu­de il fram­men­to estra­po­la­to dal libro del­lo scrit­to­re fran­ce­se Geor­ges Navel, Tra­vaux (1945), e posto da Ottie­ri in eser­go: «C’è una tri­stez­za ope­ra­ia dal­la qua­le non si gua­ri­sce che con la par­te­ci­pa­zio­ne politica».

Se Vol­po­ni, nel 1962, si con­cen­tre­rà sul­le nevro­si di Salug­gia, che sfo­ce­ran­no in una gra­ve for­ma di malat­tia fisi­ca (la tuber­co­lo­si) e men­ta­le (l’a­lie­na­zio­ne), il ter­ri­bi­le mor­bo del­l’­ho­mo indu­stria­lis, secon­do la rico­stru­zio­ne di Ottie­ri, si pre­sen­ta con altre mani­fe­sta­zio­ni: depres­sio­ne, noia, infe­li­ci­tà, il cui medi­ca­men­to — sem­bra sug­ge­ri­re la fra­se di Navel — non sta tan­to nel­la fuga ver­so un impro­ba­bi­le ritor­no alla civil­tà del­la natu­ra, quan­to nel­le lot­te, negli scio­pe­ri, nel­le pro­te­ste. Da qui sca­tu­ri­sco­no non solo le nume­ro­se pagi­ne del roman­zo dedi­ca­te alle riu­nio­ni sin­da­ca­li, a cui ade­ri­sco­no, più o meno con entu­sia­smo, i per­so­nag­gi maschi­li, ma anche la taci­ta ras­se­gna­zio­ne a un’e­si­sten­za degra­da­ta, che accom­pa­gna gli amo­ri occa­sio­na­li fio­ri­ti nel­le offi­ci­ne e che non con­tri­bui­sco­no ad allon­ta­na­re il gri­gio­re del tem­po tra­scor­so a con­tat­to con le mac­chi­ne. Cal­vi­no è il pri­mo a cap­ta­re tale sta­to di incer­tez­za e ne dà subi­to con­to a Ottie­ri, a let­tu­ra avve­nu­ta, il 15 mag­gio 1956. «Quel che pesa sul libro è la tri­stez­za» — scri­ve —. «Che gli ope­rai sia­no anche gen­te alle­gra e le fab­bri­che anche una via di liber­tà non si vede».