Museo Adriano Olivetti Caserta
Danilo Fozzati direttore Stabilimento Olivetti Pozzuoli
Ricordo dell’amico Mario Benedetti
Quando entri nella quarta età e il tempo che ti rimane lo misuri solo più in qualche anno, ripensi più spesso e più intensamente al tuo passato, alle vicende vissute, alle persone che hai conosciuto, tra questi alcuni uomini, veramente grandi sotto l’aspetto delle capacità professionali e del comportamento morale, per la verità non molti nel lontano passato, nessuno nel passato recente.
Tra queste personalità, che ho avuto la ventura di conoscere, dopo aver appreso le imprese eroiche da lui compiute come partigiano, in questi giorni è emersa e si è ingigantita in me la figura dell’ingegnere Danilo Fozzati, collega ed amico all’Olivetti, un uomo, schivo a parlare di sé, gentile e amichevole, non autoritario ma esigente sul lavoro però senza spigolature prevaricatrici. Ma ecco, pensando a lui, improvviso mi è balzato alla memoria il ricordo di un colloquio dimenticato, avuto con lui in un momento di pausa tra i problemi lavorativi, avvenuto più di quaranta anni fa. Stavo spiegandogli che tre sere alla settimana andavo a lezione di inglese, quando mi disse che lui aveva studiato il tedesco e aveva una certa padronanza di questa lingua. In quel momento il lampo di un sorriso passò nei suoi grandi occhi chiari ed intuii che egli, sia pure a disagio, stava per intraprendere una via, per lui inusitata: parlare di sé. “Vedi – mi disse – da partigiano, travestito da ufficiale tedesco, ho liberato dal carcere di Aosta un ingegnere mio amico, che avrebbe dovuto essere fucilato”. “Ma per compiere un’azione del genere ci vuole un coraggio e un sangue freddo eccezionali, non hai avuto paura?”. “Ho fatto questa azione con la massima tranquillità, ma non ho alcun merito, non ho rischiato niente”. “Ma come?”. Allora egli, fissandomi coi suoi occhi chiari, mi disse “ti faccio una confidenza, che non ho mai fatto a nessun altro, solo perché tu sei stato un giovane dell’Azione Cattolica e mi puoi capire; tu sai che ogni giorno faccio la comunione e mi confido con Gesù, ebbene nella comunione prima di quell’azione Gesù mi disse: ‘vai sereno, andrà tutto bene, non ti succederà nulla’, ed allora sono andato in auto ad Aosta come a fare una passeggiata, sicuro che non mi sarebbe successo niente di spiacevole, come infatti avvenne”. Questa confidenza dettami senza alcun vanto, anzi con disagio, quasi con timidezza come il racconto di un fatto qualunque senza importanza, svanì nella mia mente, fino ad oggi, quando ho avuto l’occasione di leggere gli scritti-diario di Tin, comandante della VII Divisione Garibaldi, sulle sue esperienze nella resistenza. Gli scritti dell’ing. Oreste Ferrari, che con il nome di battaglia “Tin” guidò la sua Divisione, non sono la cronaca-documento dei fatti che vissero i suoi partigiani.
I pochi fatti d’arme non sono descritti in dettaglio, ma solo tratteggiati a grandi linee, con la messa a fuoco talvolta di figure-attori importanti. Sembra che vivere questi fatti incisivi, rischiosi, abbia fatto vibrare nella coscienza di Tin principalmente meditazioni, considerazioni di carattere esistenziale, morale, sociologico. Per fare un esempio, la morte di Gino Pistoni è citata casualmente tra le righe di una considerazione morale “…Conservavo l’esperienza delle precedenti delusioni: così non mi stupii nell’apprendere che mentre Gino colpito da una scheggia di mortaio si preparava a morire, solo, tra le montagne che illividivano, qualcuno, approfittando della nostra assenza, aveva trafugato al campo qualche forma di formaggio e riso e sale e farina”. Nei pochi fatti militari citati, descritti senza alcuna enfasi retorica, anzi direi con spietata freddezza (“la pietà è morta” era il motto dei partigiani) emerge la figura generosa di Aldo, per il quale senti che lo stesso Tin ha un senso di rispetto. Ben sei pagine Tin dedica alla propria cattura e al trasferimento nel carcere di Aosta. “…ero incappato come un pesce… nelle maglie di un posto di blocco di cui pure non ignoravo la presenza… come fui dinanzi a chi era venuto apposta per interrogarmi ed ebbi raccolto con uno sguardo il ridicolo ed il tragico della sua piccola statura e della sua divisa azzimata ebbi a pensare subito ‘chissà se ha già fucilato qualcuno questo tipo?’ e lui come a rispondere al mio pensiero… mi disse ‘voi dovreste essere fucilato’”. Quindi Tin viene portato in macchina nel carcere di Aosta, dove giunge così tardi, per un guasto alla macchina, che l’interrogatorio è rimandato al mattino seguente. Tin descrive a lungo, in diverse pagine, i pensieri e gli stati d’animo che l’agitarono nella notte, nell’attesa di essere interrogato. “Dio aiutami, se non c’è più altro da fare, morire così come sono adesso, calmo e sereno. Ed ero calmo, sì, ma forse non ero sincero, perché quella non era che una prova ed ancora mi mancavano troppi elementi per giudicare me stesso… Così passarono le ore della notte… e mi sentii come liberato da un peso quando mi chiamarono per l’interrogatorio; maturo per ogni evenienza, che non fosse ancora l’attesa, dissi a me stesso di non stupirmi di nulla, tanto che neppure mi stupii, quando entrai nella stanza dove dovevo essere interrogato di trovarci Aldo, che con un rapido gesto di intesa, cominciò a farmi domande, come un perfetto funzionario di polizia”.
Quindi Aldo, con la scusa di dover proseguire l’interrogatorio in sede più adatta, preleva dal carcere Tin e lo riporta libero ad Ivrea. L’unico episodio militare descritto da Tin più dettagliatamente è il piano per far saltare la centrale di trasformazione e per incendiare l’autoparco dei tedeschi, situati nei pressi del cimitero di Ivrea, tentativo fallito per la presenza di campi di mine sconosciuti ai partigiani: ebbene in questo episodio emerge la figura generosa, dotata di un coraggio saldo e sicuro, di Aldo, “…dopo il solito giro lungo per evitare i posti di blocco, quando giungo al passo, trovo Aldo con un cappuccio verde di seta incerata, con i calzoni rimboccati ‘vieni anche tu?’. ‘Certamente! ’. Veniva anche lui, Varie certamente, ed aveva tutto un aspetto massiccio e tenace come non mai… Trimoncino mi fu accanto e mi sussurrò ‘c’è qualcuno lì davanti, può essere la sentinella… faccio il giro intorno al prato della centrale, conosco il posto’… ed il qualcosa avvenne d’improvviso, con un bagliore rossastro scaturito dalla terra come un vulcano. Ed il fragore si alzava e cresceva unico, profondo, terribile. Prima che l’eco si spegnesse una voce s’udì, troppo chiara per non riconoscerla in un urlo di dolore: la voce di Trimoncino disperata che invocata aiuto… e non sapevo spiegare cosa fosse successo e solo sapevo che c’erano dei feriti da raccogliere. Aldo e Libero già avevano ripassato il canale, ed annaspando al buio tra il filo spinato, nel campo di mine, solo guidati dai lamenti di Trimoncino, che s’andavano man mano spegnendo, trascinavano i feriti coperti di sangue”.
Nell’attuale società italiana, caratterizzata dal più squallido utilitarismo, in questa notte dell’intelligenza e del cuore, che stiamo attraversando, ci giunge, inaspettata, dal passato la luce della figura di Aldo, la cui bellezza per le anime grette e vili è insopportabile. Ed io qui ho voluto accendere un piccolo fuoco nel ricordo di un uomo puro e generoso, che ha compiuto atti di sublime eroismo, senza vanto, schivo a farli conoscere agli uomini, pago che fossero presenti solo a Gesù