La macchina per scrivere del maresciallo

 

dMar­ghe­ri­ta Barsimi

 

Lo zio Bep­pe, che tut­ti chia­ma­va­no con gran rispet­to, “Mare­scial­lo Via­no”, mi ave­va dato l’abitudine, sin dal­le pri­me clas­si del­le scuo­le ele­men­ta­ri, di por­tar­mi, di ritor­no da ognu­na del­le sue “mis­sio­ni”, un bigliet­to da 1000 lire fre­sco di conio. Sen­za paro­le, lo estrae­va dal por­ta­fo­glio, dove con cura lo ave­va siste­ma­to, liscio, sen­za pie­ga­tu­re, come lo pren­des­se diret­ta­men­te dal caveau del­la Ban­ca d’Italia. Non osa­vo dimo­stra­re la mia “indif­fe­ren­za” di fron­te ad un dono, che da altri, pro­ba­bil­men­te, sareb­be sta­to mol­to apprez­za­to, quin­di, in silen­zio, con un sor­ri­so, che pote­va sem­bra­re di timi­do rin­gra­zia­men­to, non pos­se­den­do bor­sel­li­ni di sor­ta, affi­da­vo la ban­co­no­ta alla mamma.

Da par­te sua, rite­nen­do che fos­se dise­du­ca­ti­vo rega­la­re del dena­ro, lei mi ave­va spie­ga­to come anche il som­mo poe­ta, aves­se col­lo­ca­to all’Inferno tut­te le cate­go­rie (usu­rai, simo­nia­ci, barat­tie­ri ecc. ) che nel cor­so del­la loro vita ave­va­no usa­to il dena­ro non come mez­zo di scam­bio, ma come sco­po del loro mercanteggiare…

Lo zio, a lun­go anda­re, ave­va capi­to che men­tre io non apprez­za­vo il dono in sé, lo stes­so tor­na­va però uti­le alle magre eco­no­mie fami­lia­ri; ad un cer­to pun­to, ben pri­ma che le 1000 lire fos­se­ro desti­na­te ad anda­re fuo­ri cor­so, sen­za paro­le, smi­se di rega­lar­me­le, sosti­tuen­do­le con busti­ne di fran­co­bol­li da col­le­zio­ne. Duran­te una visi­ta alla Caser­ma di Issi­me, dimen­ti­can­do di esse­re nel sanc­ta sanc­to­rum del­la leg­ge e dell’ordine costi­tui­to, lo zio m’ invi­tò a lascia­re mam­ma e zia nell’alloggio atti­guo all’Ufficio, affin­ché lo seguis­si là dove nem­me­no mio cugi­no ave­va mai avu­to il per­mes­so di entra­re… Da par­te mia, non sapen­do come spie­gar­mi tale “ecce­zio­ne alla rego­la”, non avrei sapu­to dire se il timo­re supe­ras­se la curio­si­tà o vice­ver­sa… D’altronde, non avrei sicu­ra­men­te potu­to decli­na­re un invi­to che non ammet­te­va dinieghi!

Pur aven­do ormai avu­to modo di cono­sce­re la pro­fon­da bon­tà, l’indole gene­ro­sa del­lo zio e il suo carat­te­re paca­to, di poche paro­le, ma quel­le poche estre­ma­men­te “per­ti­nen­ti”, la mia sog­ge­zio­ne era gran­de quan­to l’ansia per dover lascia­re il “gine­ceo”, rap­pre­sen­ta­to dal­la ras­si­cu­ran­te cuci­na del­la zia Maria. Che cosa pote­va aver deter­mi­na­to nel­lo zio tale impre­ve­di­bi­le deci­sio­ne? Egli si sedet­te alla scri­va­nia, sul­la qua­le regna­va un ordi­ne asso­lu­to, rico­nob­bi il tam­po­ne per asciu­ga­re le scrit­te fat­te con l’inchiostro, il cala­ma­io dal con­te­nu­to nero e, l’altro, con quel­lo ros­so, i tim­bri, la cio­to­la con le graf­fet­te… Ciò che mi risul­ta­va asso­lu­ta­men­te sco­no­sciu­to era un “ogget­to miste­rio­so” che tro­neg­gia­va al cen­tro del pia­no di appog­gio. ”Mi han­no det­to che tu ami scri­ve­re, ovun­que e con qua­lun­que mez­zo- esor­dì con tono ecce­zio­nal­men­te con­fi­den­zia­le lo zio/maresciallo– ho pen­sa­to che que­sto nuo­vo stru­men­to di cui è sta­ta dota­ta anche la mia Caser­ma, ti avreb­be, a dir poco, incu­rio­si­ta”.

In quel momen­to, il Mare­scial­lo ave­va lascia­to il posto allo zio e, per uno stra­no feno­me­no, que­sto scam­bio era avve­nu­to pro­prio in Caser­ma, men­tre il Mare­scial­lo, in divi­sa, era nell’Ufficio in cui le per­so­ne entra­va­no… solo se obbli­ga­te.. “Si trat­ta di una mac­chi­na per scri­ve­re, con carat­te­ri facil­men­te com­pren­si­bi­li e con le let­te­re per­fet­ta­men­te alli­nea­te e spa­zia­te in modo cor­ret­to”. Nor­mal­men­te disin­vol­ta e loqua­ce, in quel­la situa­zio­ne para­dos­sa­le, mi tro­vai appa­ren­te­men­te sen­za paro­le, anche se den­tro di me si sta­va sca­te­nan­do una rid­da di per­ché e di come, a cui non riu­sci­vo a dare un ordi­ne logi­co. Alla fine me ne uscii con un improv­vi­do: “Pos­so pro­va­re a usar­la?”.

Mi resi subi­to con­to di aver osa­to trop­po, ma lo zio par­ve non esser­si reso con­to del­la mia impu­den­za e come se non aves­si det­to nul­la, con­ti­nuò nel­la sua pre­sen­ta­zio­ne: “ La bel­la novi­tà è resa ancor più esal­tan­te dal fat­to che que­sta mac­chi­na per scri­ve­re è sta­ta pro­get­ta­ta e costrui­ta a Ivrea, dove tu sei nata! L’Olivetti è un’azienda che ha rivo­lu­zio­na­to la tec­no­lo­gia, otti­miz­zan­do i tem­pi del­la scrit­tu­ra e del cal­co­lo!”. “Acci­pic­chia,- pen­sai tra me e me– velo­ciz­za­re la scrit­tu­ra può esse­re di gran­de inte­res­se per qual­cu­no, ma i cal­co­li!…” Pen­sai alle lun­ghe, suda­te ore per impa­ra­re le tabel­li­ne, lo sfor­zo per ese­gui­re in modo cor­ret­to  mol­ti­pli­ca­zio­ni e divi­sio­ni… Non volen­do appa­ri­re indo­len­te, sfio­ran­do con deli­ca­tez­za i tasti su cui le let­te­re non segui­va­no l’ordine con cui a scuo­la ave­vo impa­ra­to l’alfabeto, rivol­gen­do­mi allo zio Bep­pe, dis­si: “ Capi­sco l’utilità per chi come te deve scri­ve­re ver­ba­li e rela­zio­ni di faci­le e cor­ret­ta let­tu­ra, ma per gli sco­la­ri come me, cre­do che lo stru­men­to più uti­le potreb­be esse­re, inve­ce, una pen­na che non neces­si­ti di cam­bia­re spes­so il pen­ni­no, che deve esse­re intin­to nell’inchiostro con­te­nu­to nel cala­ma­io, che trop­po spes­so lascia die­tro di sé una scia di goc­ce che mac­chia­no come una ver­go­gna la pagi­na del mal­ca­pi­ta­to “scri­va­no”… E allo­ra, che fare? Biso­gna cer­ca­re, pri­ma pos­si­bi­le di assor­bi­re, con un ango­lo del­la car­ta “assor­ben­te”, il fami­ge­ra­to liqui­do che se impre­gna la car­ta, va poi raschia­to via con una lamet­ta, a rischio di buca­re la pagi­na da par­te a par­te!”

Il mio era sta­to uno sfo­go tan­to spon­ta­neo quan­to asso­lu­ta­men­te fuo­ri luo­go: a me infat­ti pia­ce­va vede­re la pagi­na del qua­der­no, fit­ta del­la mia scrit­tu­ra, di let­te­re ton­deg­gian­ti e rego­la­ri… In fon­do, la gra­fia di ognu­no, non essen­do omo­lo­ga­bi­le e sovrap­po­ni­bi­le, indi­ca la per­so­na­li­tà del meto­di­co, del ribel­le, dell’esibizionista piut­to­sto che del timi­do o del pavi­do! Lo zio sem­brò non ave­re col­to que­sta sor­ta di dife­sa d’ufficio del­lo scri­ve­re a mano; non aggiun­se altro e dopo aver rico­per­to l’Olivetti con la custo­dia che ave­va tol­to per far­me­la ammi­ra­re, mi riac­com­pa­gnò in silen­zio, lun­go il cor­ri­do­io, che con­du­ce­va al soggiorno/cucina dove mam­ma e zia era­no impe­gna­te nel rito del the, con la mae­stra del pae­se e la moglie del segre­ta­rio comu­na­le. Era­no tal­men­te pre­se dai loro discor­si che non si accor­se­ro nep­pu­re del mio ritor­no; ben feli­ce di ciò, mi sedet­ti nell’angolo vici­no alla stu­fa a legna, dove ripre­si la let­tu­ra del libro che in quei gior­ni mi sta­va appas­sio­nan­do e che mi face­va sem­pre più pro­va­re il desi­de­rio di impa­ra­re a pie­ga­re la pen­na all’onda dei miei pensieri.

Da lì a qual­che tem­po, la fami­glia si sareb­be riu­ni­ta per festeg­gia­re la dop­pia occa­sio­ne del­la mia Pri­ma Comu­nio­ne e del­la Cre­si­ma. In que­gli anni di dif­fi­col­to­sa ripre­sa, i rega­li non era­no anco­ra diven­ta­ti un “obbli­go socia­le”; i pran­zi del­le feste era­no le occa­sio­ni in cui le “don­ne di casa” dava­no il meglio di sé nell’imbandire suc­cu­len­ti piat­ti a base di… pane, amo­re e fan­ta­sia. Impe­gna­ta come i miei com­pa­gni di clas­se, nel­le lezio­ni di Cate­chi­smo del seve­ro don Aimi­no, ero pre­oc­cu­pa­ta di non riu­sci­re a rispon­de­re alle doman­de che mi sareb­be­ro sta­te rivol­te, o più sem­pli­ce­men­te di non riu­sci­re a deglu­ti­re la par­ti­co­la sen­za che si incol­las­se al pala­to… Per­sa, come spes­so suc­ce­de­va, a segui­re il fiu­me in pie­na dei miei pen­sie­ri, improv­vi­sa­men­te mi resi con­to che qual­cu­no sta­va par­lan­do con me: “Visto che l’Olivetti, per il momen­to, non è tra i tuoi desi­de­ri– chi mi sta­va rivol­gen­do la paro­la era lo zio /Maresciallo– abbia­mo deci­so, la zia ed io, di rega­lar­ti una pen­na “Auro­ra”, che potreb­be esser­ti uti­le per le tue scrit­tu­re attua­li, e soprat­tut­to, per quel­le futu­re!”

Una sti­lo­gra­fi­ca tut­ta mia! Fino a quel momen­to la “sti­lo­gra­fi­ca” era sta­ta un ogget­to del desi­de­rio per tut­ti e due i miei geni­to­ri; nel caso di mio padre, un desi­de­rio segre­to, ma io ave­vo capi­to quan­to lui avreb­be ama­to esi­bir­la, infi­la­ta nel taschi­no del­la giac­ca; per mia madre, inve­ce, non sareb­be sta­ta un’esibizione, ma una neces­si­tà quo­ti­dia­na. Gra­fo­ma­ne qual era, ogni gior­no, impie­ga­va alme­no un’ora a sbri­ga­re la fit­ta cor­ri­spon­den­za che non ave­va mai smes­so di intrat­te­ne­re con le ex-col­le­ghe di lavo­ro rima­ste a Vene­zia, con le ex-com­pa­gne di col­le­gio e, soprat­tut­to con la sorel­la­stra Lin­da, alla qua­le la lega­va, oltre al rap­por­to di san­gue, una gran­de inte­sa e un affet­to particolare.

Per scri­ve­re, quo­ti­dia­na­men­te, in modo tan­to inten­so, la scor­re­vo­lez­za del­la sti­lo­gra­fi­ca, sareb­be sta­ta la solu­zio­ne idea­le! Mai avrei potu­to pen­sa­re che la pri­ma in fami­glia a pos­se­de­re un’Aurora sarei sta­ta io! Non ave­vo fat­to in tem­po a fare il pun­to del­le mie rifles­sio­ni che lo zio, alle paro­le ave­va fat­to segui­re i fat­ti: un’ ele­gan­te con­fe­zio­ne rega­lo era sta­ta posa­ta sul tavo­lo, da cui era sta­ta accu­ra­ta­men­te tol­ta qual­sia­si altra cosa. Il cofa­net­to, da solo, rap­pre­sen­ta­va una “scic­che­ria”, fode­ra­to inte­ra­men­te, sia all’esterno che all’interno, in vel­lu­to bleu: quan­do lo strin­si tra le mani, ebbi improv­vi­sa­men­te la sen­sa­zio­ne di esse­re sta­ta ammes­sa al mon­do dei “gran­di”.

Se una sti­lo­gra­fi­ca qual­sia­si era la pen­na degli adul­ti, l’Aurora ave­va in più il fat­to di esse­re una mar­ca ita­lia­na, che dico, tori­ne­se, inol­tre era sma­glian­te nel­la sua linea ele­gan­te e moder­na. Lo zio Bep­pe e la zia Maria, non poten­do unir­si al resto del­la fami­glia nel viag­gio sino a Vene­zia, dove si sareb­be svol­ta la dop­pia ceri­mo­nia, mi ave­va­no dato il loro dono con qual­che gior­no di anti­ci­po, quan­do la cam­pa­nel­la d’inizio del­le lezio­ni era suo­na­ta da cir­ca una quin­di­ci­na di gior­ni. Dal pri­mo otto­bre era ripre­so il rit­mo del­le lezio­ni in clas­se e dei com­pi­ti a casa; la novi­tà rap­pre­sen­ta­ta dall’Aurora mi ave­va dap­pri­ma elet­triz­za­ta, ma quan­do si trat­tò di toglier­la dal­la sua ele­gan­te con­fe­zio­ne per unir­la agli altri “stru­men­ti”, già pron­ti nell’astuccio qua­dra­to, di fin­ta pel­le ros­sa, mi sen­tii una sor­ta di vile profanatrice…

Non avrei potu­to por­tar­la a scuo­la e met­te­re a repen­ta­glio la sicu­rez­za dell’Aurora! Pre­fe­ri­vo con­ti­nua­re a scri­ve­re con l’anonima pen­na di bache­li­te rosa, alla qua­le cam­bia­re il pen­ni­no quan­do ini­zia­va a spun­tar­si, pri­ma che mi goc­cio­las­se sul foglio; d’altronde ero ora­mai in quar­ta e ave­vo impa­ra­to la tec­ni­ca! D’altronde, riflet­te­vo tra me e me, con tut­ti i suoi limi­ti, la pen­na di bache­li­te era quel­la che mi ave­va intro­dot­ta alla scrit­tu­ra e gra­zie ai pen­ni­ni “Tour Eif­fel”, ave­vo impa­ra­to a “modu­la­re” la mia gra­fia come se fos­se la voce: più spes­sa nel­le roton­di­tà, più sot­ti­le ed ele­gan­te nel­le linee verticali.

E l’Aurora? Sareb­be rima­sta nel cas­set­to del mio tavo­li­no, non dimen­ti­ca­ta, per qual­che anno, fino a quan­do, cala­mai, pen­ni­ni e bot­ti­gliet­te d’inchiostro sareb­be­ro defi­ni­ti­va­men­te scom­par­si dal­la cir­co­la­zio­ne. La sti­lo­gra­fi­ca sareb­be diven­ta­ta un ogget­to di uso comu­ne in tut­te le scuo­le, ma a quel pun­to, la mia Auro­ra avreb­be assun­to un valo­re sim­bo­li­co ed affet­ti­vo incom­men­su­ra­bi­le. Mac­chi­na da scri­ve­re Oli­vet­ti e pen­na sti­lo­gra­fi­ca Auro­ra: due ogget­ti? Due pro­dot­ti di alta tec­no­lo­gia? Sicu­ra­men­te due mar­chi del desi­gner ita­lia­no, desti­na­ti ad evo­ca­re sen­ti­men­ti, emo­zio­ni e tan­ti ricor­di: di atmo­sfe­re per­du­te, di per­so­ne scom­par­se, ma sem­pre “moder­ni” gra­zie a intui­zio­ni di puro genio.

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