Lettera aperta ad una macchina per scrivere

Di Umber­to Di Donato

Woman_with_Underwood_typewriterCara, vec­chia amica,
vivia­mo in que­sti tem­pi di rapi­do pro­gres­so e tut­ti ci chie­dia­mo come faces­si­mo pri­ma, come si pote­va gesti­re la vita quo­ti­dia­na sen­za com­pu­ter, sen­za inter­net, sen­za tele­fo­ni­no e sen­za tut­te le acqui­si­zio­ni del­la tec­no­lo­gia avanzata.
Come pote­va­mo fare prima!
Come si scri­ve­va, quan­do la nostra scri­va­nia era occu­pa­ta da una vec­chia mac­chi­na da scri­ve­re, qua­si sem­pre nera, ma a vol­te ver­di­na, con tasti scu­ri e let­te­re bian­che. Quel­la mac­chi­na da scri­ve­re di 60/70 anni fa, oggi relit­to pre­i­sto­ri­co di epo­che remo­te. Epo­che nel­le qua­li si cam­bia­va il nastro spor­can­do­si le dita di inchio­stro, si scri­ve­va­no le paro­le pigian­do for­te sui tasti, e invi­dian­do chi riu­sci­va a far­lo con tut­te le dita del­la mano, riser­van­do l’uso del pol­li­ce alla bar­ra spaziatrice.
La mac­chi­na occu­pa­va gran par­te del pia­no di lavo­ro e lascia­va poco spa­zio per la mes­sa in ordi­ne e lo stu­dio degli appun­ti scrit­ti con la pen­na. E ad ogni “tic” la paro­la sem­bra­va librar­si nell’aria per rica­de­re, poi, e anda­re a stam­par­si sul foglio bian­co, avvol­to attor­no al rul­lo di gom­ma. Ad ogni fru­scio di “tic” il car­rel­lo ondeg­gia­va e si spo­sta­va con movi­men­ti rit­ma­ti e armo­nio­si, come in una danza.
All’inizio del seco­lo scor­so era una vera e pro­pria rivo­lu­zio­ne, mal dige­ri­ta dai cal­li­gra­fi: e già! Per­ché esi­ste­va una vera pro­fes­sio­ne, quel­la del cal­li­gra­fo: una per­so­na seria, col­ta, capa­ce di scri­ve­re bene, con la pen­na da intin­ge­re nel cala­ma­io di inchio­stro e in gra­do di ver­ga­re il foglio con carat­te­ri ele­gan­ti. Una figu­ra pro­fes­sio­na­le arri­va­ta diret­ta­men­te dal Medio Evo e soprav­vis­su­ta sino alla metà del seco­lo ’900, tri­ste e fan­ta­sti­co nel­lo stes­so tempo.
Poi lo svi­lup­po del­la mec­ca­ni­ca por­tò, negli uffi­ci e suc­ces­si­va­men­te nel­le case, la mera­vi­glio­sa e uti­le mac­chi­na da scrivere.
Come al soli­to l’inizio debut­tò fra mil­le dif­fi­col­tà. Del resto non man­ca­va chi pro­no­sti­ca­va tem­pi duri, come era sta­to per l’automobile nei con­fron­ti del­la car­roz­za tira­ta da cavalli.
In segui­to le per­ples­si­tà si tra­sfor­ma­ro­no in resi­sten­za. Il cal­li­gra­fo ave­va intui­to la pro­pria fine al rit­mo dei tasti del­la dia­bo­li­ca mac­chi­na da scri­ve­re e, natu­ral­men­te, non si ras­se­gna­va a far­si da par­te. Non si capa­ci­ta­va ad imma­gi­na­re un mon­do diver­so da que­sto, in cui la copia era un docu­men­to vero e pro­prio, impos­si­bi­le da otte­ner­si, per­ché egli veni­va obbli­ga­to a scri­ve­re da capo tut­to il docu­men­to, pre­met­ten­do al vec­chio testo la dici­tu­ra “copia conforme”.
I cal­li­gra­fi si rite­ne­va­no eter­ni, con le loro mez­ze mani­che, mes­se lì per limi­ta­re il dan­no sul­le cami­cie bian­che del­le mac­chie vagan­ti di schiz­zi di inchio­stro. Ma il pro­gres­so avan­za­va a col­pi di dita sui tasti e quel­la pro­fes­sio­ne veni­va accan­to­na­ta negli archi­vi dei vec­chi mestie­ri. Un magaz­zi­no gran­de dove fini­va­no le foglie fat­te vola­re dal ven­to del pro­gres­so. Mi pare di vede­re gli scaf­fa­li di quel magazzino.
Ecco lì abban­do­na­ti e tra­scu­ra­ti: i cal­li­gra­fi, gli acqua­io­li, gli stra­di­ni, le rica­ma­tri­ci, gli scal­pel­li­ni, le tes­si­tri­ci al tela­io, i cestai, i cor­dai, gli agro­no­mi, gli stagnini.
A que­sto pun­to ho ripen­sa­to a te, mia cara vec­chia Let­te­ra 22 del­la Oli­vet­ti. Ho pen­sa­to a te anche se sei fini­ta in can­ti­na, tra vesti­ti vec­chi e fal­do­ni gon­fi di carta.
Ti vedo quan­do in un cal­do pome­rig­gio del 1959 ti por­tò da me, imbal­la­ta, nuo­va fiam­man­te, un gio­va­ne agen­te del­la Oli­vet­ti, con il qua­le con­di­vi­de­vo una came­ra in affit­to, al n. 3 di Piaz­za Castel­lo, a Mila­no, pro­prio di fron­te alla gran­dio­sa roc­ca­for­te Sfor­ze­sca. Por­ta­vi in dote, per­ché acqui­sta­ta da un dipen­den­te, l’esclusivo e intro­va­bi­le disco vini­li­co a 33 giri Musi­ca Per Paro­le, che inse­gna­va a scri­ve­re con tut­te le die­ci dita, sul­le onde di sim­pa­ti­che e rit­ma­te note musi­ca­li, scrit­te ad hoc: quei moti­vet­ti, alle­gri e diver­ten­ti, mi par­ve­ro di buon auspi­cio per il mio e il tuo futuro.
Eri nuo­va di fab­bri­ca e fre­sca, pron­ta ad affron­ta­re il tuo desti­no, men­tre io ti aspet­ta­vo, per­va­so da una for­te dose di gio­va­ni­le entu­sia­smo, per­ché sta­vo per­cor­ren­do i pri­mi timi­di pas­si ver­so un nuo­vo, inte­res­san­te e pro­met­ten­te impiego.
Da allo­ra sia­mo cre­sciu­ti insie­me. Quan­te ore ho tra­scor­so con la schie­na cur­va su di te, fidu­cio­so nel sicu­ro risul­ta­to del nostro impe­gno con­giun­to, con­vin­to di poter­mi costrui­re con la tua col­la­bo­ra­zio­ne un futu­ro miglio­re, aiu­tan­do­ci sem­pre vicen­de­vol­men­te, lealmente.
Tu ora ripo­si pie­na di orgo­glio e sere­ni­tà per aver assol­to egre­gia­men­te il lavo­ro per cui eri nata; io, sono qui ad aspet­ta­re che qual­cu­no valu­ti con bene­vo­len­za il mio ope­ra­to e che soprag­giun­ga­no, anche per me, atti di rico­no­scen­za, come quel­li che sto io mani­fe­stan­do nei tuoi con­fron­ti. In atte­sa che si com­pia, len­ta­men­te, anche il mio destino!
Ma, ahi­mé, mi sto facen­do sopraf­fa­re dal­la malin­co­nia. Smet­to, per­ché non voglio pro­prio ora dispia­cer­ti. Ban­do, quin­di, ai sof­fo­can­ti fumi del­la nostalgia.
Voglio sem­pre ricor­dar­ti come eri allo­ra, con il tuo soli­to piglio fer­mo, in otti­mo sta­to, con il tuo car­rel­lo luci­do, il tuo nastro ros­so e blu, i tuoi tasti luc­ci­can­ti mos­si da lun­ghe leve di metal­lo, qua­si simi­li alle zam­pe di feni­cot­te­ro, a testi­mo­nia­re un feli­ce pas­sa­to, quel­lo del­la mia e tua gioventù.
Ho fis­so davan­ti a me il colo­re ver­di­no pal­li­do del­la tua car­roz­ze­ria, quan­do rac­con­to ai gio­va­ni d’oggi la favo­la del­la tua com­par­sa come ogget­to rivo­lu­zio­na­rio nel­la mia vita e leg­go nei loro occhi un pro­fon­do, inde­scri­vi­bi­le stupore.
Loro non pos­so­no imma­gi­na­re la cari­ca inno­va­tri­ce che por­ta­sti tra noi ragaz­zi, ai tuoi tem­pi, del pia­ce­re che ave­va­mo a bat­te­re sui tuoi mor­bi­di tasti col­le­ga­ti a lun­ghe leve che si muo­ve­va­no come le zam­pe dell’uccello “dal­le ali ros­se”. Resta­no sbi­got­ti­ti quan­do ten­to di spie­ga­re loro come si face­va­no le copie con la car­ta car­bo­ne e la velina.

Il tem­po pas­sa… Alla paro­la car­bo­ne i gio­va­ni pen­sa­no alle favo­le sul­la Befa­na, cui con­trap­pon­go­no le for­me roton­de del­le gio­va­ni veli­ne. Per loro la veli­na rap­pre­sen­ta oggi una ragaz­za duran­te la sua sen­sua­le esi­bi­zio­ne tele­vi­si­va, pro­prio anti­te­si del­la Befa­na; per noi era sem­pli­ce­men­te un foglio di car­ta tra­spa­ren­te, il quin­to, sul qua­le era pos­si­bi­le otte­ne­re la più eva­ne­scen­te del­le copie.
Come è cam­bia­to il tem­po! Ma pas­sa e cam­bia, per tutti.
E anche le veli­ne di car­ne fini­ran­no, pri­ma o poi, come quel­le dicar­ta, nel magaz­zi­no dei mestie­ri spariti.
Cara Let­te­ra 22, scu­sa­mi que­sto sfo­go e le ine­vi­ta­bi­li vene nostal­gi­che, quan­do si par­la del pas­sa­to. Tie­ni pre­sen­te che anche se sei fini­ta in un ango­lo di can­ti­na, per me sei sem­pre la miglio­re ami­ca e
col­la­bo­ra­tri­ce pre­zio­sa. Cer­ta­men­te anch’io, pri­ma o poi, dovrò met­ter­mi da par­te, per­ché così è l’ineluttabile evo­lu­zio­ne dei tempi.
Però ti garan­ti­sco che lot­to anco­ra con le unghie e con i den­ti e cer­co di resistere.
Tu stai tran­quil­la! A tra­man­da­re il tuo ricor­do mi pren­de­rò cura io!
Assu­mo un impe­gno pre­ci­so nei tuoi con­fron­ti: d’ora in avan­ti spen­de­rò il resto del­la mia vita e tut­te le mie for­ze per fare in modo che il tem­po non affo­ghi nell’oblio il ricor­do di te, del disin­te­res­sa­to ed esclu­si­vo aiu­to che in tan­ti lun­ghi anni di lavo­ro mi hai docil­men­te donato.
Ti sono sem­pre riconoscente.
Umberto