Nel cuore del Diamond District a Manhattan, negli Anni ’50 l’Olivetti Store divenne un’attrazione per migliaia di persone a New York
Nel 1950, il fondatore Museum of Modern Art di Chicago, Edgar Kaufmann Jr. decise di istituire un premio che celebrasse i prodotti dal design più innovativo. La giuria era composta da progettisti di spicco come Ray Eames o Eero Saarinen e ‑ovviamente- da lui stesso. Era infatti anch’egli architetto e da giovane aveva addirittura lavorato per Frank Lloyd Wright, anzi era talmente affascinato dal maestro di Taliesin che convinse i suoi genitori ad incaricarlo di progettare la loro casa per le vacanze non lontano da una cascatella nei boschi della Pennsylvania
Ebbene per la quindicesima edizione di quel premio, divenuto già celebre in tutto il mondo, il riconoscimento andò a Thomas Watson Jr. in qualità di presidente della IBM, il gigante tecnologico, che nei primi anni sessanta stava stupendo il mondo con dei prodotti rivoluzionari e innovativi. Quando Watson salì sul palco per ricevere il premio da Kaufmann in persona, prese la parola e rivolse agli invitati un breve discorso che volle dedicare ad una persona, un uomo che non aveva mai conosciuto: il suo nome era Adriano Olivetti. Lo ringraziò perché una sera a New York, passeggiando su 5th Avenue, si imbatté nel negozio che Olivetti aveva appena aperto lì. All’interno vide macchine da scrivere coloratissime, mobili stupendi, lampade in vetro di Murano e, alle pareti, sculture e bassorilievi. L’indomani tornando in ufficio ordinò ai suoi collaboratori di cercare di imitare proprio quello stile e quel premio, il Kaufmann Award, dimostrava che aveva fatto bene.
Già nel 1942 a ben vedere la Olivetti aveva inaugurato un inedito modo di concepire i suoi punti vendita basato sul design e l’arte. L’esperimento ebbe luogo nel primo negozio, quello di Roma. Progetto minimale e modernissimo a firma di Ugo Sissi e in cui, il vero protagonista era un’enorme dipinto di Renato Guttuso che decorava un’intera parte alta quasi otto metri. “Boogie Woogie” era il titolo ‑quasi a sancire il flirt tra Olivetti e gli Stati Uniti q- per la realizzazione del quale il pittore siculo-romano pretese di essere pagato ad ore in base ai tariffari degli operai meno retribuiti. Ma eravamo solo agli inizi, il bello doveva ancora venire.
Lo sbarco in America per l’azienda di Ivrea era iniziato cautamente sin dal 1949 quando 120 esemplari delle nuovissime Divisumma 14 furono proposte alle più importanti banche e compagnie assicurative del paese che le testarono nei loro uffici rimanendone impressionati. Del resto Adriano Olivetti era una figura ben introdotta nell’establishment d’oltreoceano e in quelli stessi anni proprio grazie all’appoggio e ai soldi statunitensi stava portando avanti in Italia grandi operazioni urbanistiche.
Fu così che nel 1953, finalmente, vide la luce la Olivetti Corporation of America al capo della quale fu designato Dino, il fratello minore di Adriano, che proprio là aveva studiato laureandosi al MIT. Insieme a questa costola americana nacquero anche i primi due negozi: uno a Chicago e l’altro a San Francisco. I punti vendita erano caratterizzati anche loro da un design curatissimo ed impreziositi da opere d’arte.
La Olivetti in effetti si stava affermando come un’azienda leader ed era evidente che i suoi negozi fossero qualcosa di più che degli eleganti show-room di rappresentanza: erano piuttosto una concreta manifestazione di quello stile che permeava ogni settore dell’attività aziendale. La convinzione era che non bastasse fare un bel prodotto, ma bisognasse anche farlo bene e proporlo al cliente in un bel negozio, capace, con la sua architettura, di esaltare caratteri innovativi del marchio. Insomma tutto quello che gli altri hanno fatto decenni più tardi.
I negozi divennero insomma una sorta di manifesto architettonico con cui stupire il mondo e all’inizio degli anni Cinquanta il cuore pulsante di quel mondo si trovava a New York, anzi nel centro di Manhattan e più precisamente lungo la 5th Avenue nell’isolato compreso tra la 47esima e la 48esima, il cosiddetto Diamond District. Tutte le più importanti aziende del mondo sgomitavano per aprire lì ‑in pieno stile Mad Men– nel quadrilatero più escluso del mondo dove l’azienda d’Ivrea decise di inaugurare quello che oggi sarebbe definito un flagship store. Al piano terra della World Diamond Tower, un eclettico e lussuoso grattacielo di inizio secolo, in un locale profondo 23 metri e largo appena 8.
Certo con simili dimensioni il rischio era che il cliente, entrando, si sentisse imprigionato in un lungo corridoio, per evitarlo, per rendere quel negozio il più bello di tutti, Adriano Olivetti in persona scelse i migliori progettisti allora sulla piazza, i BBPR.
Acronimo dei loro cognomi, questo quartetto era formato da Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti e Ernesto Nathan Rogers che si erano conosciuti negli anni Trenta tra i banchi del Politecnico di Milano. Dopo la laurea con Piero Portaluppi avevano iniziato una brillante carriera come alfieri del modernismo in coraggiosa opposizione allo stile del regime fascista. Queste scelte però costarono loro carissime. Accusati di far parte della resistenza Banfi e Belgiojoso furono arrestati e deportati a Mauthausen dal quale solo il secondo farà ritorno.
Rimasti in tre, decisero, in onore del compagno scomparso, di proseguire la loro attività di progettisti mantenendo il vecchio acronimo col quale firmeranno alcune opere fondamentali come la Torre Velasca a Milano o l’ufficio postale dell’EUR a Roma. Nel 1952 arrivò poi questo prestigioso incarico per la Olivetti e i tre inventeranno qualcosa di rivoluzionario.
Al 584 di 5th Avenue un capannello di gente si assiepava ogni giorno lungo il frequentatissimo marciapiede come per assistere ad uno spettacolo e in effetti si trattava di qualcosa del genere. Lì, proprio di fronte al nuovo negozio Olivetti, un piedistallo di granito sosteneva una macchina da scrivere che i passanti potevano osservare e possibilmente utilizzare. La curiosità era irrefrenabile e quasi tutti si mettevano battere sui testi della coloratissima Studio 44 disegnata dal grande Marcello Nizzoli rimanendone affascinati per bellezza e semplicità di utilizzo.
Mezzo secolo prima degli Apple Store, i passanti di Manhattan avevano la sensazione di osservare il futuro, e non si sbagliavano. Ora dovete immaginiate che nel 1953 una macchina da scrivere era l’equivalente di quello che per noi potrebbe essere l’ultimo iPad. Un oggetto bellissimo ma anche piuttosto costoso. Trovarlo lì, mentre si camminava distrattamente e poterlo provare, be’ era qualcosa di insolito che lo faceva apparire alla portata di tutti. E così molti dei passanti entravano incuriositi nel negozio e ciò che si trovavano di fronte, una volta varcata l’enorme porta in noce alta quasi cinque metri, era qualcosa di mai visto. I colori innanzi tutto. Il verde del pavimento in marmo di Runaz ammantava tutto l’ambiente mentre in alcuni punti la pietra sembrava deformarsi plasmando sinuose stalagmiti sulle quali erano ancorati dei raffinatissimi supporti in acciaio che sorreggevano i prodotti in esposizione. Al di sopra delle variopinte lampade a sospensione in vetro di Murano, realizzate da Venini, illuminavano in modo puntuale la sala facendo risaltare il design Olivetti. Poco più in là una grande ruota in metallo, simile ad un grande ingranaggio, ruotava ininterrottamente trasportando altri modelli di macchine da scrivere direttamente dal magazzino sottostante.
Tutto il resto dello spazio era lasciato praticamente vuoto, quasi ci si trovasse in un’esposizione museale ed in effetti a contribuire a questa sensazione c’era la lunga parete di venti metri completamente decorata da un bassorilievo dello scultore Costantino Nivola. L’artista sardo si era trasferito lì prima della guerra ed era ormai apprezzatissimo anche a New York divenendo un grande amico di Le Corbusier. Per il negozio Olivetti aveva ideato un’enorme scultura in sand casting. Era lo stesso Nivola a spiegarne l’innovativa tecnica “E’ la più grande delle mie opere in sabbia” disse “L’ho fusa a sezioni, nella mia casa di Long Island, vicino alla spiaggia, mettendo prima di tutto della sabbia bagnata nelle forme di legno e facendo poi i disegni. I miei ferri del mestiere sono qualsiasi cosa: un coltello, una conchiglia, il mio pollice. Quando il disegno è completo, verso del gesso sopra la forma di sabbia e quando il gesso è secco ecco fatta la mia scultura, che presenta una bella superficie di sabbia lanuginosa”.
Nessun negozio all’epoca si avvicinava nemmeno lontanamente a quello creato qui dai BBPR e per anni non si parlò d’altro in tutta la città. L’Olivetti Store – come era chiamato – divenne un’attrazione e la gente percorreva la 5th Avenue alla sua ricerca: in pratica il più efficace spot made in Italy mai realizzato.
Quella di Ivrea sembrava in effetti l’azienda più innovativa del pianeta in quegli anni: fabbriche bellissime i cui i dipendenti godevano di ogni confort e assistenza – con biblioteche e asili inclusi -, prodotti rivoluzionari – addirittura sarà la Olivetti a realizzare i primi prototipi di quello che poi sarà personal computer – e negozi meravigliosi – dopo New York seguì quello famosissimo di piazza San Marco a Venezia disegnato da Carlo Scarpa e quello di Parigi firmato da Franco Albini-. Poi però, sul più bello, tutto andò in frantumi. La morte improvvisa di Adriano, nel 1960, chiuse un’epoca e l’azienda, lentamente ma inesorabilmente, smarrì la sua vocazione. La crisi fu inesorabile e costrinse a chiudere quello che Time aveva definito “il negozio più bello della Quinta Strada”. Il prezioso bassorilievo di Nivola verrà smontato e in gran parte trasferito a Boston presso il Massachusets Institute of Technology. Inutile cercarne oggi qualche traccia a 5th Avenue. A quell’indirizzo, ai piedi della World Diamond Tower, oggi troverete solo l’ennesimo punto vendita di Sephora perfettamente identico a tutti gli altri nel mondo. Altri tempi.