Tesi di laurea di : Fabrizio Di Maio
Inclassificabilità e originalità di Ottieri
Tra le varie definizioni attribuite ad Ottiero Ottieri da parte della critica, quella che ricorre maggiormente è l’inclassificabilità. Romanziere, saggista, poeta, sceneggiatore, drammaturgo, Ottieri è stato uno scrittore “camaleontico” che, attraverso un ampio corpus di opere (trenta per l’esattezza) pubblicate tra il 1954 ed il 2002, ha dispiegato il suo eclettico pensiero e molteplici interessi culturali, approfonditi da studi che hanno attraversato la letteratura, filosofia, psicologia, psichiatria, sociologia e politica, in tre grandi aree tematiche, l’industria, la clinica e la politica, scandagliando in profondità uno stato di sofferenza e di malessere privato e pubblico, inscindibile tra l’uomo e la società, con un impegno intellettuale specifico nel panorama della letteratura italiana del secondo Novecento. Eppure il “sistema” culturale italiano ha relegato Ottieri, inteso come un “caso clinico” più che “letterario”, in un angolo della storia della letteratura italiana dove riesce ad emergere con pochi titoli, nonostante le numerose recensioni, saggi, articoli, profili bibliografici che importanti critici, poeti o scrittori gli hanno dedicato riconoscendo in lui una particolare originalità letteraria.
Ritenuto il pioniere della cosiddetta “letteratura industriale” con la sua tetralogia formata da Tempi stretti (1957), Donnarumma all’assalto (1959), I venditori di Milano (1960) e La linea gotica (1963), Ottieri fu il primo ad affrontare, dal punto di vista letterario, le problematiche relative alla condizione degli operai italiani nella società industrializzata durante il “miracolo” economico sviluppatosi nel dopoguerra. Ottieri si era trasferito a Milano nel ’48 volendo farsi assumere in una fabbrica per partecipare attivamente, dopo aver studiato la condizione operaia soltanto sui libri (soprattutto di Marx e Simone Weil), a un processo storico determinante per l’Italia, quello dell’industrializzazione: «Dovevo capire, vedere con miei occhi il problema del rapporto tra l’operaio e la macchina così come l’avevo letto in Marx. Sono stato una specie di piccola Simone Weil».