di Ritorno sulla storia dell’Olivetti di Adriano. Mi hanno scritto molti lettori, raccontando episodi, facendo considerazioni, alcuni sono stati, e sono, fra i più grandi imprenditori del paese, ognuno ha portato un suo contributo. Come ovvio, nella mia analisi di ieri ho trascurato molti aspetti, in particolare uno, la mostruosa redditività dell’Olivetti all’epoca di Adriano. Redditività che serviva a finanziare tutte le sue iniziative sociali, culturali, politiche, anche le più folli e le più sciagurate. A dimostrazione che quando si vince alla lotteria, poi i quattrini li si scialacqua.
A chi attribuire il merito di una redditività così mostruosa? Non certo ad Adriano o alla pletora di laureati, specialisti, tecnici di cui l’azienda era infarcita, e che, sia chiaro, facevano il loro mestiere con serietà e competenza, ma nulla più. Casualmente, negli interstizi della struttura, c’era un genio, l’operaio Natale Cappellaro. Costui, entrato a 14 anni come apprendista, percorse tutta la trafila nell’area produttiva e tecnica per arrivare, 30 anni dopo, al vertice dell’ufficio tecnico. Non perché fosse stato promosso, ma solo perché il suo capo, l’ingegner Riccardo Levi, e altri colleghi nel 1943 si diedero alla macchia. Con un piccolo team di tecnici, tutti di medio-basso livello, fece esplodere il suo genio. Sarà il padre di tutte le calcolatrici Olivetti, creerà il vero core business dell’azienda.
Dopo l’Elettrosumma, seguirà la Divisumma 14 che porterà l’Olivetti ai vertici del mercato mondiale, prima al mondo in grado di compiere tutte e quattro le operazioni. Seguiranno, in un crescendo wagneriano, la Tetractys e la mitica Divisumma 24. Con questa, uscita nel ’56, l’Olivetti dominerà, in solitaria, il decennio successivo. A Cappellaro, verrà dato il titolo, onorifico, di direttore generale, unico nei primi tre o quattro livelli dell’organigramma a non avere uno straccio di laurea. Quando si decisero a dargliene una honoris causa, non furono certo il Politecnico di Torino o di Milano a farlo, ma il periferico Bari.
L’amico Francesco Torri, che a quell’epoca, giovanissimo, faceva il controller in Olivetti, mi confermò che il rapporto fra il prezzo di vendita e il full cost della Divisumma 24 era di 10 volte: un numero mostruoso. Oggi si direbbe un killer product che contribuì, in solitaria, a mantenere per anni tutta l’intellighenzia che pascolava, pensosa e tronfia, nei corridoi di Ivrea. Il contributo di costoro si estrinsecò nello scegliere il nome pitagorico di Tecractys (Franco Fortini) e le ultime macchine furono «carrozzate» con lo stile di Ettore Sottsass jr. L’Olivetti fu Cappellaro, come la Fiat furono Valletta e Giacosa, l’Agip fu Mattei, oggi la Ferrero è Michele. Non mi vengono in mente altri nomi.
L’aspetto per me incomprensibile del caso Olivetti è che il suo fallimento, da imputarsi in via esclusiva ad Adriano e alla sua corte, venne invece addebitato, dall’establishment, ai suoi successori, nuovi proprietari o manager che fossero. Quando si scriverà la vera storia di quest’azienda, la verità emergerà, e si vedrà che, anche in questa fase di declino, si ebbero grandi intuizioni, ed emersero grandi figure manageriali, andate purtroppo disperse.
Una cara amica eporediese doc, grande esperta del mondo olivettiano, mi ha confessato il suo stupore che, a sessant’anni di distanza, si veda Adriano Olivetti o come un «santino-santone» da invocare o come un personaggio verso il quale provare o «rimorso» o «invidia». La fiction della Rai si è infilata in questo cul-de-sac, e ne è uscito un prodotto che è il combinato disposto di due malintesi.
Uno, quello di matrice Rai, che, in questo caso, ha trasformato la cultura della divulgazione in una spalmata di Nutella per spettatori supposti analfabeti di ritorno.
L’altro, imbarazzante, per la presenza della figlia di Adriano, Lalla, come co-sceneggiatrice, e del nipote Giorgio Soavi, come regista. Uno spettatore laicamente informato della realtà, può capire il pudore di membri della famiglia nel raccontare pezzi dolorosi della loro storia, che di certo è stata più cruda e romanzesca di come appare nella fiction, ma non l’accetta. Questa modalità, ripeto imbarazzante, ha anche penalizzato la parte relativa all’azienda e alla politica, che invece meritavano molto più spazio e profondità. Il caso Olivetti l’ho studiato per le sue implicazioni nella storia industriale italiana del dopoguerra (così come il caso Fiat), dalle carte ho dedotto che il vero mestiere di Adriano probabilmente non era quello dell’imprenditore, forse quello dell’editore, così come Gianni Agnelli forse si sarebbe divertito di più a fare l’ambasciatore a Washington. L’errore è nostro, di fronte a personaggi straordinari e affascinanti come Adriano Olivetti o Gianni Agnelli, che hanno senza dubbio connotato un epoca, noi li vogliamo «caricare» di qualità che non avevano, e penso non avrebbero neppure voluto avere, farne dei santini o dei santoni. E allora ben ci sta la fiction plastificata della Rai.