Cerimonia per l’apposizione della targa Unesco,
Ivrea — Credo che le questioni istituzionali, i progetti che si sono fatti e quelli che, ci auguriamo, si faranno, possano essere illustrati in altre occasioni, se non è stato già fatto.
In una giornata solenne come quella di oggi, dove la solennità si trova nel senso più generativo e autentico di questo riconoscimento, ritengo più utile dire brevemente alcune cose di natura personale che provino a far emergere le ragioni più profonde alla base del nostro lavoro, le ragioni che nel 2008 ci hanno portato a proporre al Comune di candidare la città industriale di Ivrea a sito Unesco; la storia olivettiana, la storia che celebriamo è prima di ogni altra cosa una storia di sentimenti e di sentimento e quindi vale la pena parlare di questi sentimenti.
Prima però, desidero ringraziare anch’io quelli che hanno accompagnato questi 10 anni di lavoro e che hanno contribuito a trasformare quella che era un’intuizione in un progetto prima e in una realizzazione poi:
il Ministero e in particolare il Focal point per l’Unesco; la passata Amministrazione comunale, e il Sindaco Carlo della Pepa in particolare; la nuova amministrazione che ne ha raccolto l’impegno con il Sindaco Stefano Sertoli; la Regione Piemonte, la Città Metropolitana, il Comune di Banchette, la Fondazione Guelpa, il coordinatore; e, ovviamente, tutte i collaboratori della Fondazione Adriano Olivetti, quelli ancora con noi e quelli che non ci sono più.
Ieri sera ho fatto una cosa che non faccio mai e che invece facevo quando ero più piccolo: mi sono seduto alla scrivania di Adriano Olivetti, in quella che è stata la sua ultima casa e che oggi ospita la sede qui a Ivrea della nostra Fondazione.
Mi sono seduto e ho cercato di riordinare le idee non solo per l’occasione del saluto che avrei dovuto fare questa mattina, ma più in generale per riflettere intorno al lavoro fatto dalla nostra Fondazione in questi 60 anni. Ho pensato al mio lavoro e a quello delle persone che lavorano insieme con me, alle cose che funzionano, a quelle che non funzionano, alle cose fatte bene e agli errori; ho pensato alle opportunità ma anche alle insidie e alla responsabilità che la targa che è stata appena scoperta porta con sé.
Ho cercato soprattutto di capire quale sia la natura di quella forza così impalpabile eppure così concreta che muove l’ammirazione, la passione, la frustrazione, la speranza e tutti quei sentimenti che da sempre accompagnano l’evocazione della storia di Adriano Olivetti e di questi luoghi. Ho cercato di capire dove sia la sorgente di questa energia che ha attraversato mezzo secolo e che oggi appare ancora così intensa, capace di trasformarsi in iniziative di ogni genere e natura.
Sulla destra della sua scrivania Adriano teneva una foto dove mia nonna Grazia ha in braccio la loro bambina, mia madre. Hanno entrambe gli occhi molto chiari e franchi, e un sorriso timido che ritrovo in quello di una delle mie figlie. Davanti alla foto ci sono 2 piccole e coloratissime colombe in pietra che Adriano riportò da un viaggio di lavoro in Messico e che rappresentano la libertà e la fratellanza tra popoli. Oltre la foto c’è una grande finestra da dove si vedono le montagne e da dove s’intuisce, tra le foglie degli alberi in questa stagione e più chiaramente nelle stagioni invernali, il profilo di uno degli edifici che, da oggi ufficialmente, sono un patrimonio dell’umanità.
Questo era quello che vedeva Adriano Olivetti e questo, ho pensato, è in fondo ciò che anch’io mi auguro per le mie figlie: di crescere in un mondo affettuoso e armonico, vicine alle loro radici e allo stesso tempo libere.
E mi è venuta in mente quella frase che è stata scritta e che spesso cito quando raccontiamo questo patrimonio e la storia olivettiana in Italia, in Europa, nel mondo: ovvero che La bellezza non si può programmare perché la bellezza è spesso l’esito inaspettato di ricerche molto normali.
Così ciò che noi oggi celebriamo altro non è che il tentativo antico di costruire una società in cui a nessuno sia negato il diritto di godere del sorriso di un affetto e di un abbraccio; a cui a nessuno sia negato il diritto alla cultura e alla bellezza; a cui a nessuno sia negato il diritto alla libertà; a cui a nessuno, soprattutto, sia negato il diritto all’accoglienza e alla pace. Quello che, perciò, mi auguro è che qualunque azione, qualunque nuova impresa nascerà a partire da e grazie a questo riconoscimento, che sia un’iniziativa individuale o di messa a sistema istituzionale di tutte le energie come auspico, abbia anzitutto la forza di coordinare creatività, competenza e condivisione come fattori autenticamente identitari; abbia il coraggio e soprattutto l’ambizione di porsi obbiettivi di lungo periodo e non accontentarsi di una restituzione immediata.
Questo patrimonio sarà infatti valorizzato solo se non sarà tradito. Questi edifici, questi luoghi, vivranno di nuovo davvero se non saranno traditi. L’insegnamento di Adriano Olivetti sarà ancora attuale se non sarà tradito.
Infine, e spero perdonerete di nuovo l’autoreferenzialità, vorrei dedicare un pensiero a mia madre che non ha visto la conclusione di questo lavoro, ma che lo aveva saputo immaginare quando tanti ancora non lo vedevano. Ringraziarla mi permette anche di concludere:
è lei infatti ad avermi insegnato quale sia davvero il valore universale che questa storia è riuscita a incarnare in modo così eccezionale, il valore che vale la pena raccontare in tutto il mondo e per cui da tutto il mondo, mi auguro, varrà da oggi in poi la pena essere anche qui: ovvero la consapevolezza che quella straordinaria capacità della nostra specie di creare, con il lavoro e con l’ingegno, ricchezza e innovazione deve essere impiegata per servire un’idea che in fondo non ha tempo e non ha luogo perché appartiene all’umanità e alla sua storia, come da oggi anche questo patrimonio: l’idea del rispetto della dignità delle persone, chiunque esse siano e da ovunque esse provengano.
Solo in questo modo si potrà davvero dire che Olivetti non è più solo la straordinaria storia di alcune donne e uomini, non è più solo la vicenda incredibile di un’impresa e della sua cultura, non è più solo il racconto mitico del genio concreto di Adriano, ma che Olivetti, oggi, siamo davvero tutti noi. Grazie,
Beniamino de Liguori (nipote di Adriano Olivetti )