Tiziano Terzani — il manager arcolbaleno olivettiano

Il mana­ger e l’ar­co­ba­le­no è trat­to dal­l’in­ter­vi­sta di Fran­ce­sco Ber­to­li­ni a Tizia­no Ter­za­ni pub­bli­ca­ta sul­la rivi­sta «Eco­no­mia e Mana­ge­ment» (n.6, novem­bre­di­cem­bre 2002). Per met­te­re in risal­to la coe­ren­za del­l’ar­go­men­ta­zio­ne, si è scel­to di omet­te­re le doman­de del­l’in­ter­vi­sta­to­re, a cui van­no i nostri rin­gra­zia­men­ti. Al testo sono sta­ti appor­ta­ti i mini­mi aggiu­sta­men­ti neces­sa­ri per ren­de­re flui­da la lettura.

Per cin­que anni ho fat­to il mana­ger alla Oli­vet­ti; vi ero entra­to come gio­va­ne lau­rea­to con lode alla Nor­ma­le di Pisa. Ave­vo scel­to la Oli­vet­ti per­ché a quel tem­po un gio­va­ne come me, che veni­va da una fami­glia pove­ra e che vole­va impe­gnar­si social­men­te, ave­va la scel­ta tra la Oli­vet­ti e il Par­ti­to comu­ni­sta. Io scel­si la Oli­vet­ti per­ché rap­pre­sen­ta­va la modernità.

Per­ché era moder­na la Oli­vet­ti di Adria­no? Cosa c’e­ra di gran­dio­so che oggi non rie­sco più a vede­re in que­sto siste­ma eco­no­mi­co, esclu­si­va­men­te fon­da­to sul con­cet­to di cre­sci­ta? Cer­to, anche allo­ra biso­gna­va pro­dur­re mac­chi­ne da scri­ve­re e ven­der­le, ma il pro­ces­so non era fine a se stes­so o fun­zio­na­le alla cre­sci­ta; era fun­zio­na­le a qual­co­s’al­tro, un qual­co­sa che Adria­no Oli­vet­ti chia­ma­va Comu­ni­tà e che, attra­ver­so l’a­zien­da, cre­sce­va in cul­tu­ra, in comu­ni­ca­zio­ne, in sen­so di fra­tel­lan­za; era, cioè, un pro­get­to cul­tu­ra­le e socia­le, e que­sto, secon­do me, era un gran­de aspet­to posi­ti­vo del­l’e­co­no­mia. Si dirà che quel pro­get­to è fal­li­to, vista anche la fine del­la Oli­vet­ti. Sì, è vero. Ma il pun­to è che se non c’è la rivo­lu­zio­ne dovun­que, non ci può esse­re la rivo­lu­zio­ne, per cui anche un’i­so­la come la Oli­vet­ti in un mare che spin­ge­va in altre dire­zio­ni non ha resi­sti­to, ma l’in­di­ca­zio­ne di ten­den­za era posi­ti­vis­si­ma e la Oli­vet­ti ha dato tan­to in que­gli anni: il cli­ma che si respi­ra­va nel­la fab­bri­ca, il rap­por­to tra mana­ger e ope­rai, la biblio­te­ca, la cul­tu­ra. L’e­spe­rien­za indu­stria­le del­la Oli­vet­ti ha pro­dot­to tan­to sul ter­ri­to­rio, per cui è impor­tan­te ricor­da­re quel ten­ta­ti­vo, e non è det­to che espe­rien­ze come quel­la non pos­sa­no ripetersi.

Oggi que­sta orri­bi­le glo­ba­liz­za­zio­ne fa sì che il suc­ces­so deb­ba esse­re misu­ra­to allo stes­so modo dovun­que, dal­l’A­me­ri­ca, al Giap­po­ne, al Ban­gla­desh. Que­sta con­ce­zio­ne del suc­ces­so crea le incom­pren­sio­ni che tut­ti vedia­mo e, secon­do me, crea que­sta cata­stro­fe ver­so la qua­le stia­mo andan­do; per­ché o noi ci ren­dia­mo con­to che è neces­sa­rio muta­re, oppu­re qual­co­sa da fuo­ri ci impor­rà que­sta scel­ta: pro­ba­bil­men­te la natu­ra, vio­len­ta­ta e sac­cheg­gia­ta, e pur­trop­po non ascol­ta­ta, o qualcos’altro.

La cosa più ter­ri­bi­le, per un uomo del­la mia età, è sen­tir­si Cas­san­dra e accor­ger­si di aver ragio­ne. È così ovvio che stia­mo andan­do ver­so l’a­bis­so. E la guer­ra è una scor­cia­to­ia, ma ci sarem­mo arri­va­ti comun­que, eco­lo­gi­ca­men­te, social­men­te, da tut­ti i pun­ti di vista. Tut­ti cor­ro­no, ma ver­so dove, alla ricer­ca di cosa? Per­ché? Mol­ti sen­to­no che que­sto cor­re­re non ci si addi­ce e che ci fa per­de­re tan­ti vec­chi pia­ce­ri. Ma chi ha ormai il corag­gio di dire: «Fer­mi! Cam­bia­mo stra­da!». Eppu­re, se ci fos­si­mo per­si in una fore­sta, o nel deser­to, farem­mo di tut­to per tro­va­re una via d’u­sci­ta! Per­ché non fare lo stes­so con que­sto bene­det­to model­lo fon­da­to sul­la cre­sci­ta, che ci ren­de più ric­chi, più sani, più bel­li, ma in fon­do sem­pre meno feli­ci? È qua­si rin­cuo­ran­te che la depres­sio­ne sia diven­ta­ta un male tan­to dif­fu­so; signi­fi­ca che den­tro la gen­te resta un desi­de­rio di uma­ni­tà, nono­stan­te l’a­bis­so ver­so cui ci stia­mo indirizzando.

[ ..]

L’e­co­no­mia è un para­dos­so di per sé, per­ché è fon­da­ta su una serie di cri­te­ri e di valo­ri che esclu­do­no il più impor­tan­te di tut­ti: la vita.

Tut­to lo sfor­zo eco­no­mi­co moder­no è fon­da­to sul con­cet­to che lo svi­lup­po è cre­sci­ta, cre­sci­ta, cre­sci­ta. È un mec­ca­ni­smo tut­to inte­so a cre­sce­re, come se l’uo­mo, anche fisi­ca­men­te, aves­se l’o­biet­ti­vo con­ti­nuo del­la cre­sci­ta e potes­se aumen­ta­re con que­sto la sua uma­ni­tà. Non vie­ne mai con­si­de­ra­to, dal­le teo­rie eco­no­mi­che, il nume­ro del­le per­so­ne feli­ci. Ho viag­gia­to tut­ta la vita nei pae­si pove­ri del mon­do. Spes­so, pri­ma di un viag­gio si con­sul­ta­no le sche­de pae­se del­la World Bank, del­l’A­sian Deve­lo­p­ment Bank ecc., che ti dico­no il nume­ro di fri­go­ri­fe­ri, di auto­mo­bi­li, di cel­lu­la­ri pro capi­te nel pae­se, ma non ti dico­no mai quan­ta gen­te è felice.

Uno dei cri­te­ri fon­da­men­ta­li che man­ca all’e­qua­zio­ne eco­no­mi­ca è la feli­ci­tà, e non dico la feli­ci­tà che si misu­ra occi­den­tal­men­te col nume­ro di tele­fo­ni­ni pro capi­te o con i depo­si­ti ban­ca­ri, ma la feli­ci­tà per­ce­pi­ta all’in­ter­no del­la cul­tu­ra di cui par­lia­mo: Gen­gis Khan, per esem­pio, era feli­ce quan­do pote­va mas­sa­cra­re tre­mi­la per­so­ne, rapi­re la moglie del capo e met­ter­se­la sul dor­so del caval­lo, men­tre lui lo face­va sgoz­za­re. Que­sta, for­se, era la feli­ci­tà di Gen­gis Khan nel XII seco­lo; for­se, oggi la feli­ci­tà per un mon­go­lo è diver­sa, la feli­ci­tà per un viet­na­mi­ta è diver­sa, la feli­ci­tà per un fio­ren­ti­no come me è diver­sa. Per­ché tut­ta que­sta bana­li­tà rela­ti­va al fat­to che in India sono pove­ris­si­mi eppu­re sor­ri­do­no? Per­ché non han­no anco­ra tut­ti que­sti sogni che noi abbia­mo; il desi­de­rio è tal­men­te con­te­nu­to che la feli­ci­tà è a por­ta­ta di mano. Noi vivia­mo in una socie­tà che crea con­ti­nua­men­te desi­de­ri ancor pri­ma dei pro­dot­ti che esau­di­sco­no que­sti desi­de­ri, per cui sia­mo in per­ma­nen­te infe­li­ci­tà. Ho una figlia che è diret­to­re com­mer­cia­le di una gran­de azien­da del lus­so, e ogni vol­ta che la incon­tro le chie­do come pos­sa lavo­ra­re per un’in­du­stria il cui sen­so di fon­do è crea­re biso­gni pri­ma anco­ra di prodotti.

Que­sta crea­zio­ne del biso­gno è un auto­ma­ti­co mec­ca­ni­smo di infe­li­ci­tà: io me ne ren­do con­to viven­do nei pae­si poveri.

Sicu­ra­men­te sono da apprez­za­re quei mana­ger e impren­di­to­ri che cer­ca­no di capi­re l’im­pat­to del­la pro­pria atti­vi­tà nel con­te­sto in cui ope­ra­no, ma la gran­de tra­ge­dia di tut­to quel­lo di cui par­lia­mo è lega­ta al fat­to che se non vedia­mo tut­te le cose lega­te l’u­na all’al­tra non riu­sci­re­mo mai a risol­ve­re nien­te. Que­sti anni di soli­tu­di­ne mi han­no mol­to aiu­ta­to a pen­sa­re a questo.

One­sta­men­te, que­sta rifles­sio­ne non vuo­le aggiun­ge­re un’ul­te­rio­re dif­fi­col­tà al pro­ces­so di miglio­ra­men­to, ma ser­ve a ren­der­si con­to che è inu­ti­le pro­va­re dal­la par­te sba­glia­ta, con­tro quel­le che qual­cu­no chia­ma cor­ren­ti sot­ter­ra­nee, che in real­tà non sono sot­ter­ra­nee, ma sono ben visi­bi­li e mol­to for­ti da con­tra­sta­re. Dob­bia­mo len­ta­men­te cam­bia­re noi, per­ché se un’a­zien­da si pre­oc­cu­pa del­l’am­bien­te e redi­ge il cosid­det­to bilan­cio socia­le, ma ope­ra in un con­te­sto che pro­prio non con­di­vi­de nes­su­no di que­sti valo­ri, non ce la fa, ver­rà schiac­cia­ta. Per cui la cosa più impor­tan­te è len­ta­men­te far pren­de­re coscien­za a tut­ti; anche il con­su­ma­to­re deve len­ta­men­te pren­de­re coscien­za del­l’a­zien­da che fa uno sfor­zo per venir­gli incon­tro e che lo trat­ta con più uma­ni­tà, e allo­ra que­sti valo­ri pos­so­no diven­ta­re domi­nan­ti nel­la socie­tà, e lo saran­no anche nel­l’e­co­no­mia e potran­no così assu­me­re una carat­te­ri­sti­ca portante.

[.. ]

Pren­dia­mo la reli­gio­ne come esem­pio. Vive­ka­nan­da, il gran­de misti­co india­no, viag­gia­va alla fine del­l’Ot­to­cen­to negli Sta­ti Uni­ti per far cono­sce­re l’in­dui­smo. A San Fran­ci­sco, al ter­mi­ne di una con­fe­ren­za, una signo­ra si alzò e gli chie­se: «Non pen­sa che il mon­do sareb­be più bel­lo se ci fos­se una sola reli­gio­ne per tut­ti gli uomi­ni?». «No», rispo­se Vive­ka­nan­da «for­se sareb­be anco­ra più bel­lo se ci fos­se­ro tan­te reli­gio­ni quan­ti sono gli uomini».

Ora, anche sen­za auspi­ca­re sei miliar­di di model­li di svi­lup­po, pos­sia­mo pen­sa­re che non ve ne sia uno asso­lu­to. È vero che l’in­te­gra­zio­ne dei siste­mi fa sì che ci sia un rap­por­to di osmo­si e di con­cor­ren­za per cui un’a­zien­da com­ple­ta­men­te fuo­ri da que­sta logi­ca non ce la fa per­ché il mer­ca­to rego­la tut­to. Però, su que­sto dob­bia­mo vera­men­te riflet­te­re: non c’è un solo modo di pen­sa­re alla reli­gio­ne, alla vita, e non può quin­di esser­ci un solo model­lo economico.

 

 

Nel mon­do di oggi esi­sto­no milio­ni e milio­ni di per­so­ne, guar­da caso aggre­ga­te nel mon­do musul­ma­no (ma non neces­sa­ria­men­te: potreb­be­ro esse­re aggre­ga­te in altre for­me socia­li) che non voglio­no esse­re come noi, non voglio­no sogna­re come noi, non voglio­no pen­sa­re come noi; per­so­ne per cui la vita è un’al­tra cosa che per noi, con aspi­ra­zio­ni e pre­oc­cu­pa­zio­ni diver­se da quel­la di diven­ta­re ric­chi. Dob­bia­mo, con mol­ta mode­stia, pen­sa­re che, for­se, han­no anche loro, in quel loro modo di pen­sa­re, qual­co­sa di inte­res­san­te — sen­za dire miglio­re o peg­gio­re — e accet­ta­re che sia così, che pos­sa esi­ste­re un pen­sie­ro diverso.

[ ..]

Si par­la spes­so del­le mul­ti­na­zio­na­li che sfrut­ta­no i lavo­ra­to­ri del Sud del mon­do. A vol­te si trat­ta sem­pli­ce­men­te di tan­te pic­co­le indu­strie che cemen­ti­fi­ca­no risa­ie seco­la­ri, tra­sfor­man­do miglia­ia di con­ta­di­ni in ope­rai per pro­dur­re scar­pe da gin­na­sti­ca o radio­li­ne: fino al gior­no in cui è più con­ve­nien­te por­ta­re quel­le lavo­ra­zio­ni altro­ve, le fab­bri­che chiu­do­no, gli ope­rai resta­no sen­za lavo­ro e, non essen­do­ci più i cam­pi per far cre­sce­re il riso, la gente

muo­re di fame. È que­sta la glo­ba­liz­za­zio­ne? Non è for­se una for­ma di vio­len­za? Si pen­si all’in­ci­den­te del­la Union Car­bi­de in india, frut­to di assen­za di con­trol­li e di lavo­ra­zio­ni trop­po peri­co­lo­se per l’Oc­ci­den­te. Arun­d­ha­ti Roy, una famo­sa scrit­tri­ce india­na, ha recen­te­men­te scrit­to agli ame­ri­ca­ni dicen­do di ave­re tut­te le pro­ve con­tro War­ren Ander­son, pre­si­den­te del­la Union Car­bi­de, chie­den­do di por­tar­lo di fron­te a un tri­bu­na­le india­no come respon­sa­bi­le del­l’in­ci­den­te che nel 1984 pro­vo­cò 16.000 mor­ti. For­se, dal pun­to di vista di quel­le vit­ti­me, anche Ander­son è un ter­ro­ri­sta. Sto for­zan­do, ma per far capi­re come que­sto modo di con­ce­pi­re lo svi­lup­po pos­sa esse­re una for­te for­ma di vio­len­za. La Thai­lan­dia ave­va bel­le risa­ie, oggi i capi­ta­li si stan­no spo­stan­do in Viet­nam, più con­ve­nien­te; in Thai­lan­dia cosa rima­ne? E poi la men­ta­li­tà è cam­bia­ta, e allo­ra si ricor­re al turi­smo, for­se una del­le indu­strie più male­fi­che, che ha ridot­to il mon­do a un enor­me giar­di­no d’in­fan­zia, a una Disney­land sen­za confini.

[ … ]

Noi man­dia­mo dele­ga­zio­ni a inse­gna­re agli altri cosa devo­no fare, con­vin­ti che que­sti abbia­no gli stes­si nostri desi­de­ri. Sareb­be bel­lo se li pagas­si­mo per veni­re a vede­re le con­se­guen­ze a lun­go ter­mi­ne del nostro model­lo di svi­lup­po, per­ché potreb­be­ro difen­der­se­ne o quan­to­me­no aggiu­sta­re il tiro.

Io rac­con­to sem­pre un epi­so­dio del 1949, quan­do la pri­ma dele­ga­zio­ne tibe­ta­na arri­vò a Lon­dra, con pel­li di peco­ra fat­te a man­tel­lo, e fu por­ta­ta nel­la metro­po­li­ta­na dove, rima­sti ter­ro­riz­za­ti dal­la fre­ne­sia e dal­la gen­te che cor­re­va, sen­za smet­te­re di leg­ge­re il gior­na­le men­tre scen­de­va le sca­le, i tibe­ta­ni chie­se­ro ai fun­zio­na­ri ingle­si: «Dite­ci la veri­tà, cosa pos­sia­mo fare per voi?»

Io tro­vo que­sto anco­ra vero oggi; pur­trop­po, anche i tibe­ta­ni sono ormai devo­ti alla glo­ba­liz­za­zio­ne e guar­da­no la CNN. Ma sareb­be bello!

[ … ]

Un ragio­na­men­to di que­sto tipo ci por­ta ine­vi­ta­bil­men­te sul tema del valo­re. Io uso spes­so l’i­dea del tra­mon­to, il cui valo­re è dif­fi­ci­le da quan­ti­fi­ca­re, ma che può aiu­ta­re a for­za­re l’e­co­no­mia ver­so nuo­vi cri­te­ri, stra­ni per gli eco­no­mi­sti ma fon­da­men­ta­li per il nostro futuro.

Già, il valo­re che si attri­bui­sce alle cose. L’e­co­no­mia ha un gra­ve difet­to: è tut­ta fon­da­ta per gli eco­no­mi­sti; non è fat­ta per la gen­te, e oltre a que­sto ha l’ag­gra­van­te di non esse­re una scien­za, in quan­to, come si è visto e si con­ti­nua a vede­re, non vi sono pre­vi­sio­ni fat­te dagli eco­no­mi­sti che si sia­no avve­ra­te. E il pro­ble­ma del tra­mon­to è il pro­ble­ma del­la bel­lez­za in gene­ra­le. La clas­si­ci­tà india­na ce lo spie­ga mol­to bene: «Non c’è nien­te fuo­ri che non ci sia den­tro e non c’è nien­te den­tro che non ci sia fuo­ri». In altre paro­le, se tu non hai la bel­lez­za den­tro, il tra­mon­to non lo vedrai mai bel­lo. E come si fa ad ave­re la bel­lez­za den­tro? È un pro­ces­so di lun­ga por­ta­ta ma è fon­da­men­ta­le; se non la edu­chi, que­sta bel­lez­za den­tro, non riuscirai.

[ … ]

Io per gli impren­di­to­ri nutro gran­de e sin­ce­ra sim­pa­tia. Anche l’im­pren­di­to­re deve pen­sa­re che tut­to quel­lo che fa è lega­to a tut­to, non può vede­re la sua azien­da sen­za con­si­de­ra­re il con­te­sto del mon­do. Que­sto tavo­li­no è qui per­ché miglia­ia di fat­ti sono avve­nu­ti con­se­quen­zial­men­te; c’è una sto­riel­la india­na che dice che que­sto tavo­li­no è qui per­ché il

 

seme è cre­sciu­to, l’al­be­ro è sta­to taglia­to, mes­so assie­me con dei chio­di otte­nu­ti con del fer­ro pro­ve­nien­te da una minie­ra… sareb­be sta­to suf­fi­cien­te che quel gior­no quel mina­to­re non aves­se pre­so quel fer­ro, e que­sto tavo­lo non sareb­be qui. E que­sto è fondamentale.

Pen­sia­mo a un gio­va­ne mana­ger: quan­do entra in un’a­zien­da, deve sape­re che abdi­ca alla sua uma­ni­tà nel­l’at­ti­mo stes­so in cui accet­ta la logi­ca impli­ci­ta in quel siste­ma eco­no­mi­co, che por­ta lui a esse­re un infe­li­ce con­ti­nuo, per­ché deve sem­pre cre­sce­re, ven­de­re sem­pre di più.

Pro­vo spes­so com­pas­sio­ne, nel sen­so lati­no del ter­mi­ne, per i mana­ger: fan­no una vita orri­bi­le. Han­no l’il­lu­sio­ne di un gran­dis­si­mo pote­re: un mana­ger di una mul­ti­na­zio­na­le, da un uffi­cio, con un click o una tele­fo­na­ta può spo­sta­re immen­se quan­ti­tà di dena­ro, deci­den­do il futu­ro di mol­te per­so­ne. Il gior­no dopo può esse­re rimos­so per­ché la sua deci­sio­ne è sta­ta giu­di­ca­ta sba­glia­ta; è quin­di una vita estre­ma­men­te alea­to­ria, come il siste­ma eco­no­mi­co di cui è lo stru­men­to esecutivo.

Anche un mana­ger deve vede­re che quel­lo che lui fa è lega­to a tut­to il resto del mon­do, e, for­se, in que­sto modo può ave­re più sod­di­sfa­zio­ne, sen­tir­si meno sepa­ra­to dal­la real­tà quo­ti­dia­na. Que­sto tavo­lo, come abbia­mo già det­to, è qui per­ché miglia­ia di fat­ti sono avve­nu­ti con­se­quen­zial­men­te. Que­sta è la vera glo­ba­liz­za­zio­ne: tut­ti appar­te­nia­mo allo stes­so grup­po, que­sta stra­na raz­za uma­na, sia­mo tut­ti su que­sta pic­co­la pal­la che abbia­mo buca­to, bru­cia­to, taglia­to. Allo­ra anche un mana­ger, se comin­cia a vede­re le cose in que­sta dimen­sio­ne, non solo ha un più bel sen­so del­la pro­pria vita, ma anche del pro­prio fare, del pro­prio esse­re. E poi deve comin­cia­re a pen­sa­re più crea­ti­va­men­te. Io li vedo: si vesto­no tut­ti ugua­li, han­no com­por­ta­men­ti tut­ti ugua­li; que­sta pove­ra gen­te è costret­ta a com­por­ta­men­ti che impe­di­sco­no loro l’e­ser­ci­zio del­la più bel­la cosa che anche un mana­ger dovreb­be ave­re: la fan­ta­sia. Un gran­de mana­ger è qual­cu­no capa­ce di inven­ta­re qual­co­sa di nuo­vo, non di ripro­dur­re qual­co­sa di stan­tio, maga­ri sem­pli­ce­men­te ridi­pin­to. Anche i mana­ger devo­no risco­pri­re i colo­ri dell’arcobaleno.