Nel 1926 il capo del socialismo italiano, Filippo Turati, capisce che deve lasciare l’Italia, ma non gli danno il permesso. Decide di farlo clandestinamente. Lo aiutano, fra gli altri, Ferruccio Parri, Sandro Pertini e Carlo Rosselli. Ma alla guida dell’auto che porta di notte Turati fuori dall’Italia c’è Adriano Olivetti.
di Giuseppe Turani
Due episodi per spiegare chi è stato Adriano Olivetti e perché’ ancora oggi è un mito. Durante la seconda guerra mondiale, quando i tedeschi nell’Italia occupata, stavano arrivando a Ivrea, Adriano Olivetti aveva un problema: in magazzino c’erano cinque mila macchine da scrivere pronte per essere messe in commercio. I tedeschi le avrebbero certamente requisite. Che fare? Adriano Olivetti ha un’idea. Convoca gli operai e spiega loro la situazione: portatevi a casa queste macchine, una o due a testa, e nascondetele. Dopo la guerra, le riporterete qui. E infatti sono tornate tutte e cinque mila.
Nel 1926 il capo del socialismo italiano, Filippo Turati, capisce che deve lasciare l’Italia, ma non gli danno il permesso. Decide di farlo clandestinamente. Lo aiutano, fra gli altri, Ferruccio Parri, Sandro Pertini e Carlo Rosselli. Ma alla guida dell’auto che porta di notte Turati fuori dall’Italia c’è Adriano Olivetti.
Figlio di un ebreo conservatore e di una valdese, non riceve un’educazione religiosa. Solo in tarda età si convertirà al cattolicesimo. Quello che lui fa a Ivrea è qualcosa di incredibile, al punto che poi non si è più ripetuto. Ogni tanto salta fuori un industriale che dice di voler fare “l’Olivetti”, ma il modello non è replicabile. Solo Steve Jobs, con la Apple in America, lo ha fatto, almeno in parte.
Per capire ilo “modello Olivetti” bisogna partire dalla personalità di Adriano. Un cristiano molto impegnato politicamente e grandissimo, visionario, imprenditore. Sul prodotto, dal padre aveva ereditato una fabbrica di macchine da scrivere, realizza una rivoluzione che poi segnerà la storia di tutta l’industria mondiale: le macchine non devono essere solo funzionanti e comode, ma devono anche essere belle. E infatti alcune sue macchine da scrivere di mezzo secolo fa sono ancora esposte nei musei di design. Adriano ha un successo quasi incredibile: da Ivrea, con le sue stupende macchine, controlla il 30 per cento del mercato delle macchine da scrivere del mondo. Compra un’azienda in America, ma è un bidone e allora manda di nascosto soldi dall’Italia per impedire che venga cancellata dal listino di Borsa.
La sua idea di azienda è molto semplice: è un bene comune, dell’imprenditore e dei lavoratori. I dipendenti li paga bene, assume i loro figli, li circonda di ogni welfare possibile e immaginabile (cure mediche, assistenza psicologica). A Ivrea arrivano i migliori intellettuali italiani a diffondere cultura e consapevolezza. Apre una delle prime fabbriche del Sud. I lavoratori della Olivetti sono in gran parte contadini. Affinché non lascino incolti i campi, Adriano sistema le loro case e, alla mattina, un pulmino fa il giro per raccogliere i lavoratori e portarli alla Olivetti. Alla sera lo stesso pulmino li riporta indietro, in tempo per dare una mano nei lavori sui campi.
La fabbrica come una famiglia? Quasi. E infatti Pci e Cgil sono contrari: preferiscono un padrone contro cui battersi al posto di questo strano personaggio intriso di cultura valdese. Ma Adriano resiste e fino a quando vive (morirà nel 1960) la Olivetti rimane un luogo in cui gli operai sono trattati come persone e in cui ci si prende cura anche dell’istruzione dei loro figli e degli eventuali disagi psicologici delle mogli. Un modello insuperato, a cui molti dicono ancora oggi di ispirarsi. Ma non è vero: il ”modello Olivetti” non era un insieme di tecniche e di concessioni. Era un fenomeno culturale e politico: la migliore visione sociale unita al miglior cristianesimo.
(Dal “Quotidiano Nazionale” dell’11 gennaio 2016)