Ottiero Ottieri alla Olivetti di Pozzuoli
Lo scrittore psicologo per alcuni mesi lavorò nel lontano 1956 nello stabilimento Olivetti per la selezione del personale raccontò quella esperienza nel libro libro “Donnarumma all’assalto” che narra il lavoro di “uno psicologo al servizio dell’azienda, e il cui compito consiste nel selezionare il personale adatto da assumere: “ma quello stesso occhio, adoperando un suo particolare strabismo intellettuale si chiede: ma che senso ha selezionare i più adatti dove la disoccupazione è abnorme? Lo psicologo sa che il suo lavoro è «immorale» perché è una difesa contro il dolore altrui, e perché dove la Storia ha piegato gli uomini non può esserci neutralità: «La selezione potrebbe anche avere un valore umano, se la domanda e l’offerta stessero in equilibrio», ma quando non è così allora la conoscenza stessa partecipa all’assurdo: «Un sociologo ha osservato che è inutile stabilire in laboratorio l’idoneità di un gruppo di operai a entrare in una fabbrica di tappi, se le fabbri-che di tappi della zona chiudono». Fino alla fine lo psicologo che somministra test e pone domande in Donnarumma all’assalto resterà fedele al suo doppio sguardo: da un lato osserverà la capacità dell’industria di abituare alla serietà, a una sorta di etica pro-testante del lavoro e al senso di responsabilità; dall’altro fisserà così attentamente la fabbrica-modello e il suo ragionevole ordine, da farla apparire inevitabilmente sospetta, anch’essa forse preda di un meccanismo di potere dal quale la sua diversità non riesce a escluderla.”
L’occhio di Ottieri legge la realtà con una circospezione attenta che fa venire alla luce i dettagli in una trasparenza dove le cose sembrano parlare da sé. Donnarumma all’assalto è un romanzo-reportage in anticipo sui tempi, un tentativo di capire la realtà senza stravolgerla nella nebbia della fantasticheria estetica, ma anche senza cedere all’illusione di poterla descrivere «come è». In un luogo cruciale del libro, Ottieri dichiara che dopo aver letto La condizione operaia di Simone Weil ha cercato di capire se ciò che la Weil vi raccontava fosse vero, ma che non ci è riuscito: «Passo tante volte dietro le schiene dei nostri nelle presse ma ancora i loro veri pensieri mi sfuggono. Se provo io a lavorare alle presse, io non sono loro. Se li interrogo, possono mentire. Se li osservo, posso descriverli, ma non capirli. Se mi metto nella loro testa, posso inventare un monologo interiore sbagliato. Essi, dovrebbero esprimersi».
Dal libro “Donnarumma all’assalto” di Ottiero Ottieri
Eduardo De Filippo
in visita alla Olivetti di Pozzuoli
È stata una mattina memorabile per l’operaio Dioguardi, membro di commissione interna, ex attore del varietà.
Continuamente visitano la nostra fabbrica turisti stranieri, giornalisti, ministri, sociologi e architetti; dovremo anzi disporre per un ufficio di ricevimento. Di prima mattina si è annunciato Eduardo De Filippo. Naturalmente il minuto e guizzante Dioguardi, con la sua testina tonda piena di spiriti matti, di canzoni, non é stato dimenticato come accompagnatore. E come si poteva?
Verso le undici — ora fissata — egli e un ingegnere/staccando solennemente il lavoro/si sono portati nell’atrio incontro a Eduardo. Lo stabilimento formicolava d’impazienza. Gli operai attendevano il loro turno: attendevano che la maschera comica e tragica facesse capolino dalla vetrata dell’officina, si avviasse tra le macchine utensili, poi si fermasse ai banchi. I visitatori compiono sempre un giro stabilito, officina, impianti, montaggio e finalmente sfociano in una terrazza, davanti alla mia stanza dove si ammira il panorama.
Aspettavano l’arrivo come di un padre. Questo padre esilarante, simbolo della loro libertà e del teatro che noi organizzatori continuamente gli ricacciamo in gola — tardava. Si seppe, alle undici e un quarto, che aveva varcato i cancelli. Ma tardava ancora: che si limitasse a visitare i servizi sociali e il giardino, o si chiudesse nell’ufficio del direttore, o che Dioguardi lo sequestrasse per farsi prendere in compagnia ?
Invece, con l’ingegnere e Dioguardi, sbrigati i convenevoli nell’atrio, Eduardo era entrato subito nell’ascensore, perché desiderava iniziare dal montaggio, dal prodotto finito. Disse che avrebbe capito meglio ciò che costruivamo, il nostro scopo.
Abbiamo un ascensore nuovo e lucido, unico meccanismo dello stabilimento che ogni tanto si blocca: ha l’apertura e la chiusura automatica delle porte, ma persino il giorno dell’inaugurazione si fermò a mezza strada. Questa volta si è bloccato a un metro dal primo piano.
Non c’ero; nel mio ufficio frugavo freneticamente tra le domande, in cerca di un radiotecnico che non si trovava perché gli specializzati, al momento buono, non si trovano mai: questo darebbe ragione agli svalutatori della disoccupazione.
E dovuto accorrere un perito del servizio impianti, chiamare un manovale e far compiere l’ultimo tragitto all’ascensore sollevandolo a mano. Intanto fra le quattro pareti di lega leggera, Eduardo calmo e filosofico, un po’ ironico verso le debolezze della tecnica, con la sua signorile discrezione; Dioguardi felice di stargli piú a lungo vicino; l’ingegnere impavido e cosciente — non gridavano, non perdevano il sangue freddo, benché stessero stretti e senza aria.
Pacato, Eduardo è emerso con la sua scorta dalla cabina che lo teneva prigioniero. Si è incamminato a salutare il direttore, socchiudendo gli occhi nella grande luce della segreteria. Che cosa si saranno detti? Dopo poco ha iniziato la passeggiata dal montaggio. Quelli dell’officina fremevano; se non fosse giunto in tempo per mezzogiorno, avremmo avuto uno sciopero a rovescio, non avrebbero abbandonato il lavoro per correre alla mensa. Dimenticavano la fame, aspettando il santo della grande religione tragicomica.
Fin dai primi banchi del montaggio, un fotografo precedendoli ma camminando all’indietro, riprendeva coi flashes il visitatore e gli accompagnatori, tra cui sempre Dioguardi. Ciò ha agitato gli operai. Essi erano anche disposti ad attenderlo fermi ai ban-chi, proseguendo il lavoro, lasciando che egli si accostasse ad ognuno; ma che alcuni potessero venir ritratti con lui ed altri no, non lo sopportavano.
Ognuno volle essere fotografato accanto a lui. Dai banchi, i pezzi ancora in mano, si sporgevano per entrare nel riquadro della scena, farsi notare, spingendo avanti una faccia da commedia, sgranando occhi che fossero di una espressività, di una comicità irresistibile.
Lo sciopero
Ha appoggiato il gomito sul tavolo. Per prima cosa ha esposto il suo metodo generale di pensiero che consiste nel porsi sempre degli interrogativi e affrontarli. Si è fermato levando via il gomito dalla scrivania.
«Dottore, questa volta mi sono risposto che lo sciopero è necessario.»
«Quando?»
« Non importa : prima o poi.»
« E necessario per una ragione sola, insomma per qualche rivendicazione precisa, o per… tante ragioni? »
«Avete capito, dottore! Per tante ragioni!» Gli brillavano gli occhi. Ci eravamo intesi: è anche uno sciopero dimostrativo, di prestigio, ma non lo può confessare. E una sola cosa potevo dirgli da funzionario onesto, una cosa che rimanesse ampiamente dentro il recinto della democrazia: «Fate uno sciopero, ma soltanto se siete sicuri che riuscirà.»
«Siamo sicuri.»
«Perché uno sciopero fallito in questa fabbrica, è la fine di tutti gli scioperi.»
Maliziosamente ha esclamato: «Dottore, siete furbo!»
Furbo, perché il funzionario suggeriva una misura di tattica sindacale, un programma più astuto della lotta, o perché spegneva il fuoco con l’aria di volerlo accendere meglio?
Sarò furbo, Straniero… » Egli sospirava e distratto toccava qua e là le carte della scrivania. Meditava.
«Uno sciopero… perché non credano che noi… Noi siamo capaci anche di resistere a oltranza. Forse i nuovi assunti…» Di nuovo si poneva gli interrogativi.
«Tutti gli operai, al nord e al sud quando hanno deciso, quando hanno deciso loro, sono capaci di sostenere uno sciopero» ho detto.
«Dottore, siete simpatico, siete furbo!» Si è acceso e rianimato, gli occhi celesti palpitanti, come se avessero strappato un segreto. «Dottore, siete simpatico, siete furbo. Ma state attento! » ghignava.
« Voi per me rimanete sempre uno della direzione e io le vostre frasi me le tengo… le uso ai miei fini… » La minaccia machiavellica e familiare lo rendeva molto contento; si sentiva sul filo della lotta di classe e insieme nel cuore direttivo della fabbrica; andava da un angolo all’altro della stanza, posava fuggevolmente gli occhi sugli archivi.
«Me lo ricorderò, Straniero! »
«Ciao, professore. »
E corso ad affrontare il direttore. Sono i suoi giorni. Eppure nel pomeriggio lo tocca l’ombra di una sconfitta. Ha dovuto esperimentare uno di quegli strappi fra organizzazione e base, rappresentanti e rappresentati, che scavano la terra sotto i piedi degli animatori, dei capi. Lo tradiscono, senza volerlo, le donne. Perché non si è assicurato prima? O veramente le ragazze del collaudo lo hanno ingannato?
II montaggio
Dopo averlo osservato bene, siedo a un banco vuoto dietro di lui, uguale al suo. Devo prendere una gabbietta d’acciaio, come una scatoletta rettangolare con gli orli forati e dentati, orientarla, deporla in un piccolo attrezzo sul banco. Allinearvi fra le tacche dei denti, in ordine, dieci gambi che portano dieci caratteri in cima, i numeri dallo 0 al 9, e sporgono fuori. Incastrare fra i gambi delle piccole molle.
Solo manovrando bene l’attrezzo, questo schiaccia tutte insieme le molle e le ficca nelle loro sedi. Prima che inventassero l’attrezzo, si inserivano dentro una per una. Quando stanno così premute e schiacciate dall’attrezzo, bisogna, cercando che non saltino via, sostituire la pressione dell’attrezzo con quella di una dentiera, una specie di coperchio della scatola, che va infilata di lato e poi fatta scorrere verso sinistra, spingendo via l’attrezzo pian piano.
Poi fissare con due viti la dentiera sulla gabbietta, il coperchio sulla scatola. Le molle e i gambi restano imprigionati, i numeri sporgono, elastici. Il tempo totale è di settantatre secondi.
Sul banco, c’è davanti una cassetta a due piani con dieci scomparti, quattro sopra e sei sotto; quelli di sopra contengono lo 0, il 2, il 3 e 1’1, e quelli di sotto il 4, il 6, 1’8, il 9, il 7, il 5. E razionale: se si avanza a due mani dai lati al centro della cassetta, prima sopra e poi sotto, prendendo i caratteri e mettendoli di seguito nella gabbietta, sempre a due mani, i caratteri si dispongono dallo O al 9, senza stare a guardarli, alla cieca. Alla sinistra ho il mucchio delle gabbiette, a destra le dentiere. Ho una «sondina» di acciaio per controllare la luce fra i caratteri a pezzo montato; una scatola di viti; un cacciavite; una pinza; un piano per il controllo della spianatura del pezzo; e contro lo stoma-co, attaccata al banco, la scatola delle molle, co-me vermi.
Comincio con una mano sola; con due impiegherei 06 tempo. Lavoro e ci penso, perché mi occorre compitare il seguito dei movimenti. L’orologio non lo guardo neppure. Infilo i caratteri e poi depongo pian piano le molle. Quando esse sono in fila, ribalto l’attrezzo e premo sulla testa delle molle. L’attrezzo me ne incastra alcune nella dentiera, ma non tutte. Per sistemare le ribelli aiutandomi con le dita, rialzo un momento l’attrezzo: allora tutte insieme, liberate, saltano via e si spargono sul banco. Alcune saltano sul pavimento o si infilano nelle pieghe del mio camice nuovo, inamidato; riprovo subito, con molle nuove o con le vecchie recuperabili.
Qualche molla sguscia sempre e alcune fanno balzi da pulci. Mi vergogno di quello spreco di molle. Finalmente l’attrezzo le ha costrette dentro tutte insieme, con un colpo solo. Ora devo sostituire la dentiera all’attrezzo. Se non la infilo giusta, passo passo, facendola scorrere contro l’attrezzo movibile, le molle rialzano il capo e allora è inutile provare a domarle schiacciandole. Si vendicano schiaccian-dosi storte cosicché la dentiera non arriva fino in fondo, e poi, non si avvita. Ecco, ho infilato giusto la dentiera. Ma anche stringere le viti è difficile, a guardarlo sembra facile.
Finalmente ho arrangiato il primo pezzo.
I primi pezzi sono tutti difficili ugualmente; è il colpo con l’attrezzo che non si sa dare. Ero talmente preoccupato, accanito ad avvitare che il salone mi scompariva intorno. Per ogni pezzo ricominciavo da capo due o tre volte, e naturalmente prendevo sempre i caratteri con una mano sola. L’abilità, la coordinazione manuale ricercata dagli esami psicotecnici… eccola. Le famose dita agili e sottili.
Dopo qualche pezzo montato duramente, ho escogitato la maniera di domare quei saltaleoni. Come, non lo so; con il primo allenamento impercettibile. Cioè, ho imparato a manovrare l’attrezzo almeno, col pensiero. Non ci riesco, ma so quello che debbo fare, nella mia testa. Sbircio l’orologio da polso e ci leggo che ai settantatre secondi sto ancora a metà del montaggio del pezzo. Faccio il cinquanta per cento del cottimo e al mio ritmo la fabbrica chiuderebbe dopo aver aumentato la produzione di molle…