Verso la fine del 1980, le Edizioni di Comunità pubblicarono Adriano Olivetti: un’idea di democrazia”.
Nel libro Geno Pampaloni che — com’è noto — di Adriano fu fra i collaboratori più vicini, aveva raccolto gli articoli che su di lui aveva scritto nel corso di vent’anni.
Dal volume di Pampaloni “Architettura e Urbanistica negli anni cinquanta alla Olivetti”, scritto alla fine del 1973, con una breve nota introduttiva dell’autore.
Nel 1973 una rivista milanese, progettando un fascicolo speciale dedicato alle forme e al significato delle attività Olivetti nei campi dell’architettura e dell’urbanistica, del design, ecc., chiese anche la mia testimonianza per il periodo (1948–1960) durante il quale avevo colla-borato da vicino con Adriano Olivetti, prima al Centro culturale di Ivrea e via via agli uffici di presidenza della società, alla direzione centrale per le relazioni culturali, all’Unrra-Casas, e come segretario generale del Movimento Comunità.Quel fascicolo non è mai uscito, per ragioni che ignoro, e ritengo utile pubblicare per gli amici la mia testimonianza, se non altro per confrontare insieme con loro il lavoro rovinoso del tempo sulla memoria di ciascuno di noi. Mi piace ricordare qui con affetto, in questo giorno di fine d’anno, alcuni degli amici più cari di allora, che non sono più con noi: Antonio Barolini, Genesio Berghino, Giuseppe Gagliardo, Rigo Innocenti, Riccardo Musatti.
Dirigismo estetico: questa può essere una definizione, abbastanza approssimata, del pensiero di Adriano Olivetti, per quel che riguarda l’architettura, l’urbanistica, il design e in genere l’arte, nel periodo in cui ho lavorato accanto a lui, e cioè nel decennio finale della sua vita (dal 1948 al 1960).
Per cercare di rendere conto, sia pure all’ingrosso, dei motivi complessi che confluirono a determinare quel pensiero, e giustificare la mia definizione, occorrerà soffermarsi brevemente a individuare il quadro di riferimento, storico, culturale e psicologico, entro il quale esso si colloca. Gli elementi essenziali da prendere in esame mi sembrano i seguenti:
1) riflessi della funzione di avanguardia esercitata dal giovane Olivetti nel periodo pre-bellico;
2) successo industriale del dopoguerra e sentimento della responsabilità dell’impresa;
3) influenza della cultura italiana di quel periodo caratterizzata dall’ideologia dell’impegno;
4) fase politica del Movimento Comunità; polemica con la classe politica e ricerca di un “modello alternativo” di società;
5) tentativo di creare le strutture essenziali di una “Comunità concreta” nel Canavese, attorno alle fabbriche di Ivrea.
Mi pare evidente, come risulta da questa elencazione tematica, che è impossibile scindere, nella figura di Adriano Olivetti, e quindi nel movimento di cultura da lui promosso e condizionato dal peso della sua personalità, ciò che gli derivava dalla riflessione teorica sulle istituzioni politiche e ciò che gli derivava dal-l’esperienza di capo d’industria. Nella leadership politica che egli vagheggiava, e che in qualche misura impersonò, — a di-spetto della sottigliezza accanita, “perfezionistica”, dei suoi pro-getti di un nuovo Stato — non era mai esclusa la parte, che vorrei dire paterna, del promotore di produzione. L’ambiguità, a lungo rimproveratagli, tra la produzione di beni — da cui il sospetto di neocapitalismo mascherato — e la produzione di Bene — da cui il sospetto di utopia e di paternalismo — era tutto sommato un’ambiguità piena di forza religiosa, una scommessa decisiva anche sul piano esistenziale. Di qui l’idea, empirica eppur vigorosa-mente vissuta, dell’architettura come arte primaria, ma sempre nel campo delle “arti applicate”. E di qui l’idea bipolare della pianificazione urbanistica: scienza interdisciplinare che si esprime in volontà politica, e al tempo stesso volontà politica che culmina in una politica della Forma.
Il discorso ci porterebbe molto lontano, e lo chiudo subito. Ma è essenziale averlo accennato, perché è essenziale, per ricondurci al clima di Ivrea degli anni cinquanta, avere presente l’ideologia allora dominante: il potere inteso in primo luogo come intervento in favore della “qualità della vita”.
Geno Pampaloni