Adriano Olivetti durante il fascismo

di Dimi­tri Buf­fa da L’Opinione del 15 mag­gio 2023

Cor­po­ra­ti­vi­smo sen­za ebrei”, una fra­se impe­gna­ti­va nel­la sua infa­mi­tà. E se ades­so uno vi doman­das­se chi l’ha scrit­ta, e per­ché, sareb­be faci­le sba­glia­re la rispo­sta. Infat­ti, chi nel 1935, pri­ma del­le leg­gi raz­zia­li, si era espo­sto in manie­ra così dram­ma­ti­ca­men­te signi­fi­ca­ti­va – ed evo­ca­ti­va di disgra­zie che sareb­be­ro segui­te negli anni futu­ri – non era un “qui­sque de popu­lo”. Ben­sì il ram­pol­lo, ere­de al tro­no – per resta­re sul pez­zo – del­la dina­stia indu­stria­le di Camil­lo Oli­vet­ti. Cioè il figlio Adria­no. Un ido­lo del­la sini­stra labu­ri­sta e sicu­ra­men­te un gran­de genio, un inno­va­to­re nel rap­por­to tra fab­bri­ca e operaio.

Quel­la che potreb­be defi­nir­si, fate voi, una “rive­la­zio­ne”, o maga­ri una sem­pli­ce “agni­zio­ne”, cioè un disve­la­men­to uffi­cia­le di ciò che era alme­no in par­te già noto, lo dob­bia­mo al pro­gram­ma imper­di­bi­le di Miche­le Lem­bo su Radio Radi­ca­le, ogni dome­ni­ca mat­ti­na poco dopo le 11. Un appun­ta­men­to, in sostan­za, che com­pul­sa rivi­ste sto­ri­che, di soli­to di nic­chia. Ma che nel­la fat­ti­spe­cie cita­va due lun­ghis­si­mi arti­co­li su Il Foglio del 15 e del 16 apri­le, scrit­ti da Fran­co Debe­ne­det­ti, a com­men­to dell’ottimo sag­gio di Pao­lo Bric­co, “Adria­no Oli­vet­ti, un ita­lia­no del Nove­cen­to”. Un’opera, que­sta, di rara one­stà intel­let­tua­le, che rischia però di met­te­re in imba­raz­zo tut­ti quei qua­lun­qui­sti di sini­stra anche un bel po’ igno­ran­ti – come capi­ta anche con gli uomi­ni di cul­tu­ra di destra – che ido­la­tra­no il model­lo di indu­stria idea­to da Adria­no Oli­vet­ti. E a ragio­ne vedu­ta. Sot­ta­cen­do però il con­te­sto poli­ti­co in cui esso ebbe la luce, che alla fine è quel­lo descrit­to anche nel film “Una vita dif­fi­ci­le” di Dino Risi con Alber­to Sor­di. Pel­li­co­la che con­te­ne­va quel­la famo­sa sce­na in cui Sor­di – che inter­pre­ta il ruo­lo di un neo-par­ti­gia­no, Sil­vio Magnoz­zi, il qua­le in pre­ce­den­za ave­va com­bat­tu­to con il regio eser­ci­to e quin­di con il regi­me fasci­sta – pren­de­va atto del­la scar­sa par­te­ci­pa­zio­ne di altri par­ti­gia­ni a una riu­nio­ne per pia­ni­fi­ca­re la Resi­sten­za. Con­ta­va i pre­sen­ti, poche deci­ne, nel luo­go desi­gna­to per la riu­nio­ne clan­de­sti­na e pro­fe­ri­va in roma­ne­sco una fra­se, che, all’epoca dell’uscita del­la pel­li­co­la, pro­vo­cò non poche pole­mi­che: “Ahò, semo poco più di ven­ti, ricor­dia­mo­ce­lo… non vor­rei dopo la guer­ra che sta piaz­za se riem­pis­se… de partigiani”.

 

Noto­ria­men­te, poi, le cose anda­ro­no così. Gen­te come Gior­gio Boc­ca, che pochi anni pri­ma ave­va­no scrit­to arti­co­li orren­di con­tro la raz­za ebrai­ca, a caval­lo del 25 luglio e dell’8 set­tem­bre entra­ro­no nel­le for­ma­zio­ni par­ti­gia­ne, gene­ral­men­te comu­ni­ste. L’attenuante per Adria­no Oli­vet­ti è che comun­que, essen­do gui­da­to dagli inte­res­si per l’azien­da di fami­glia (il padre Camil­lo, dopo esser­si dimes­so nel 1935 per limi­ti di età da un con­si­glio diret­ti­vo degli indu­stria­li che agi­va in manie­ra mar­ca­ta­men­te fasci­sta e cor­po­ra­ti­va, cal­deg­giò pres­so le auto­ri­tà cit­ta­di­ne di Ivrea che fos­se il figlio Adria­no a pren­de­re il suo posto), andas­se fat­ta una tara alla sua ade­sio­ne appa­ren­te­men­te entu­sia­sta alla Welt­an­schauung di Beni­to Mus­so­li­ni. Pur­trop­po, però, sem­pre restan­do nell’ottica dell’onestà intel­let­tua­le appli­ca­ta ai pas­sa­ti even­ti sto­ri­ci, esi­ste pure un’aggravante. For­se pre­va­len­te. Adria­no Oli­vet­ti cer­ca­va un ruo­lo più gran­de nell’imprenditoria col­la­te­ra­le al regi­me. Riu­scì a impor­re per tut­ti gli anni Tren­ta una poli­ti­ca di dazi con­tro le mac­chi­ne da scri­ve­re, soprat­tut­to ame­ri­ca­ne e anche con­tro sin­go­li com­po­nen­ti del­le stes­se. Un dazio pari al 45 per cen­to del prez­zo fina­le, che riu­scì a tene­re lon­ta­na per un decen­nio la con­cor­ren­za nei con­fron­ti dei pur otti­mi e inno­va­ti­vi pro­dot­ti dal­la Olivetti.

Adria­no Oli­vet­ti, poi, in mol­ti suoi arti­co­li per perio­di­ci spe­cia­liz­za­ti dell’epoca, nascon­den­do i pro­pri veri inten­ti die­tro una visio­ne “tec­ni­ci­sta”, sem­bra­va svol­ge­re il ruo­lo di “mosca coc­chie­ra” del regi­me, auspi­can­do una misu­ra sem­pre mag­gio­re di cor­po­ra­ti­vi­smo nazio­na­li­sta nell’economia, fino a “stra­ma­le­di­re” la liber­tà eco­no­mi­ca e la con­cor­ren­za. Visio­ne che ovvia­men­te alla Oli­vet­ti non pote­va che fare como­do. Inol­tre, Adria­no Oli­vet­ti stes­so chie­se e otten­ne una vera e pro­pria rac­co­man­da­zio­ne pres­so il Duce da par­te di un inter­me­dia­rio di alto ran­go – cita­to anche nel dop­pio arti­co­lo di Fran­co Debe­ne­det­ti che in pra­ti­ca recen­si­sce il libro di Pao­lo Bric­co – per pre­sen­ta­re a Beni­to Mus­so­li­ni il pri­mo pro­get­to di “una fab­bri­ca cor­po­ra­ti­va”. Infi­ne, tre anni pri­ma dell’emanazione del­le leg­gi raz­zia­li, ecco quel­la fra­se su una eco­no­mia (“cor­po­ra­ti­vi­smo sen­za ebrei”) che i nazi­sti avreb­be­ro poi defi­ni­ta “juden free”. Ce ne sareb­be abba­stan­za per una con­dan­na pesan­te da par­te del Tri­bu­na­le del­la sto­ria. Così non è anda­ta. E anche il rin­ne­ga­men­to del­le paren­te­le ebrai­che da par­te di padre – che Oli­vet­ti com­pie nel 1938, facen­do deca­de­re da ogni cari­ca del­la indu­stria i suoi paren­ti di quel­la reli­gio­ne – non sono basta­ti a tra­man­da­re un giu­di­zio più rea­li­sti­co ed equi­li­bra­to sul­la figu­ra, comun­que monu­men­ta­le, di Adria­no Olivetti.

Va però det­to – per col­mo di one­stà intel­let­tua­le – che il pro­ble­ma che nel Dopo­guer­ra sal­ve­rà tan­ti fasci­sti da giu­di­zi di con­dan­na, solo per­ché pas­sa­ti a ingros­sa­re le fila dei par­ti­gia­ni comu­ni­sti, esat­ta­men­te come nel film di Risi, sta nel mani­co: in Ita­lia epu­ra­zio­ni vere e pro­prie, maga­ri anche sim­bo­li­che, di una clas­se diri­gen­te cor­ri­va al Duce, non ce ne sono sta­te. Nes­su­no è sta­to inco­rag­gia­to nep­pu­re a pub­bli­che ammis­sio­ni di col­pa. Al con­tra­rio di quan­to acca­du­to nel­la Ger­ma­nia nazi­sta, ridot­ta all’anno zero dai bom­bar­da­men­ti alleati.

Noi ita­lia­ni ce la sia­mo in par­te cava­ta ed è pas­sa­to lo slo­gan che fos­si­mo “bra­va gen­te”. Ma que­sto pas­sag­gio in caval­le­ria del­la veri­tà sto­ri­ca degli even­ti agi­sce anco­ra oggi come un vele­no che impe­di­sce, in lar­ga par­te, un vero pro­ces­so di paci­fi­ca­zio­ne tra ideo­lo­gie – entram­be tota­li­ta­rie e vio­len­te come fasci­smo e comu­ni­smo (qual­cu­no direb­be ugua­li e con­tra­rie, ndr) – maga­ri sul model­lo suda­fri­ca­no di Nel­son Man­de­la. I “gen­dar­mi del­la memo­ria”, di cui par­la­va Giam­pao­lo Pan­sa in uno de pro­pri libri più signi­fi­ca­ti­vi, han­no fat­to in modo per qua­si un seco­lo che la sto­ria di quel perio­do fos­se ampia­men­te rac­con­ta­ta in manie­ra mon­ca. Per usa­re un eufe­mi­smo. E se anco­ra oggi nes­su­no vuo­le ammet­te­re le pro­prie respon­sa­bi­li­tà per pri­mo, è dura ipo­tiz­za­re un lie­to fine. Di sicu­ro con­ti­nue­ran­no solo gli ana­te­mi.

(*) Pao­lo Bric­co, “Adria­no Oli­vet­ti, un ita­lia­no del Nove­cen­to”, Riz­zo­li492 pagi­ne22 euro